Una matita e un pezzo di carta

L’intervista che qui trascriviamo è il risultato di alcuni incontri che si sono svolti nella libreria Palmaverde, quella “bottega di libri” che il poeta continua a gestire nella sua città, a Bologna. Da essa dovrebbe risultare agevole individuare i nuclei problematici essenziali, emergenti dalle sue posizioni rispetto a tematiche generali del passato come del presente.

Se si operasse una traduzione, un’esemplificazione o una sintesi dei significati politico-culturali e strettamente letterari delle parole e dei testi di Roversi, affidandoli ai termini di una “storia degli intellettuali” e delle poetiche del Novecento, si potrebbero identificare alcuni cardini statici della sua opera, dinamicamente articolati nel corso del tempo. La tensione, espressa sin dagli anni Cinquanta e dall’esperienza di “Officina”, nel piegare la letteratura e il linguaggio poetico a fini dichiaratamente extraletterari; il tentativo, attraverso la sperimentazione dei mezzi espressivi ereditati dalla tradizione, di realizzare un rapporto con il reale che si evolvesse nella direzione della denuncia morale e della testimonianza civile. Una “letteratura del rifiuto” che, per tutti gli anni Sessanta, si esprime per il tramite di uno sperimentalismo dei generi (dal romanzo alla poesia, dal teatro alla pratica saggistica), in evidente opposizione alle formulazioni ideologico-letterarie della neoavanguardia. Una intensa attività teorica, articolata sulla sua rivista, “Rendiconti”, che si colloca con originalità nel contesto del “marxismo critico”, con le ricerche avviate sulle questioni linguistiche e sociali, derivanti dall’emergenza del problema della “comunicazione”. Un impegno letterario e pratico-organizzativo che, a ridosso del movimento del 1968, assume la forma “integrale” della ricerca-sperimentazione di canali di distribuzione autogestiti e chiaramente alternativi all’industria culturale (il teatro “politico”, le Descrizioni in atto)e che, al contempo, si mostra lucidamente consapevole delle proprie precarietà, dei limiti e delle profonde potenzialità di ogni operazione intellettuale. E dà prova di questa autocritica e auto-dissacrazione all’interno stesso del testo, sulle pagine dei suoi lavori. L’elenco potrebbe proseguire allargandosi ai corollari più mediati di queste posizioni di fondo. Pur nella genericità di ogni formulazione, e sulla base delle sue risposte, apparirà che esse, nel loro insieme, anche nei loro risvolti provocatori e paradossali, definiscono con precisione la collocazione storica e poetica dell’autore.

 

D.: Vorrei partire da alcune sue dichiarazioni più recenti, tratte dall’editoriale di apertura del numero 31 di “Rendiconti” (luglio 1992), con cui si rilanciava la pubblicazione della rivista dopo un’interruzione di diciassette anni. Si legge: “[…] tutto ciò che occorre fare, è da fare al di fuori del bailamme della società dello spettacolo che dentro al frastuono predominante omogeneizza tutto, tutto livella, appiattisce e si dispone a sollevarlo appena un poco, fuori dalla norma, solo se intersecato dal contrassegno di qualche transitoria risata”. A ben guardare, si tratta della ripresa di termini risalenti alle riflessioni svolte nei decenni passati. Nel 1964, in risposta a una inchiesta sui rapporti tra letteratura e neocapitalismo, avvertiva: “[…] non credo, lo ripeto, che si possa concludere qualcosa nell’ordine dell’opposizione a un siffatto sistema presumendo di operare dal di dentro. Così come non credo a tutte le sofisticate operazioni letterarie di mediazione”.

Potrebbe spiegarci il senso e le finalità del suo operare che si è venuto affermando, in maniera solitaria, in opposizione all’“ufficialità” dell’industria culturale?

R.: La risposta sta tutta nel problema della gestione della comunicazione. Partendo da una constatazione, forse un po’ generica perché visceralmente “impaurita”, della situazione che cominciava a configurarsi negli anni Sessanta, e cioè della codificazione-pianificazione del sistema di comunicazione ufficiale, generale. Che dapprima in modo già determinato, e adesso compiutamente, tende a gestire interessi non solo economici, ma collegati alla convinzione che la comunicazione è diventata il potere ufficiale, reale, del tempo dato. Il sistema di comunicazione iniziava a coprire e a rendere inefficaci gli spazi marginali di libertà che sino ad allora erano consentiti. La mia posizione, in realtà, non era volutamente solitaria, ma partiva dalla convinzione che non c’era modo di fare opposizione in tale situazione se non stando da parte. Non c’era altra soluzione ai miei occhi, lo ripeto: alla rotativa bisognava opporre il ciclostile. In termini assoluti poteva sembrare un’opposizione perdente in partenza, ma cercava di non esserlo del tutto: perché ponendo il ciclostile all’opposizione, si poteva confidare su un sistema di distribuzione che è stato per alcuni decenni capillare, quasi mano a mano, porta a porta, e si attuò fino alla fine degli anni Settanta, a livello nazionale e non solo locale. Mi riferisco all’operazione collegata alle Descrizioni in atto e a tutta quella serie di fogli, foglietti volanti, ciclostilati d’ogni genere, rivistine di poesia tirate quasi a mano, che davano la possibilità di tenerci in contatto, di comunicare, di operare, proprio mentre ci si interrogava su questo problema formidabile che ci scorreva sotto gli occhi, mentre il potere ufficiale stava risolvendo assai bene il problema del dominio assoluto della comunicazione. Contemporaneamente, il mio impegno era quello di riflettere sulla debolezza dell’operazione che si compiva, e sulla necessità e l’urgenza di trovare dei sistemi di comunicazione più resistenti e aggiornati. Siamo arrivati a un certo punto in cui, come ho scritto in un verso di quegli anni, “l’età del ciclostile” era finita. Non voleva essere un verso dantesco, profetico, ma una constatazione e uno stabilire che il periodo di quella militanza era concluso, non per mancanza di lievito personale in me o negli altri, ma semplicemente perché la situazione generale non la rendeva, oramai, efficace. Che cosa sostituire? Non si è sostituito nulla, e anzi quelle ultime colleganze, quell’organizzazione capillare si è dissolta con la crisi della sinistra, e non si è ancora riusciti a cogliere nuovi elementi validi e sostitutivi, propulsivi.

 

D.: Colpisce, nella ricostruzione del periodo, l’originalità e, assieme, la marginalità della sua posizione sostanzialmente isolata ed eccentrica. Come si spiega l’indifferenza dell’intellettualità di quegli anni nei confronti della questione della comunicazione?

R.: Gli altri accettavano, non si accorgevano di entrare (sia pure dialetticamente) nel sistema, e quindi vivevano tutta la conflittualità che quegli anni proponevano dal suo interno. Si diventava deputati della sinistra, docenti universitari, giornalisti di grido, funzionari editoriali (è il caso a me molto caro di Vittorio Sereni). Tutti erano, in un modo o nell’altro, nel disagio o nell’indifferenza, dentro il sistema, dentro gli apparati del sistema culturale. La posizione, drastica e precisa, risentita, veniva considerata come opposizione individuale, via via sempre più perdente e destinata alla sconfitta, che lasciava un margine di efficacia solo a un ascolto certo non molto alto. La mia convinzione, d’altra parte, è che il fervore di una ricerca in questo campo comportava e comporta il rischio di sperimentare con libertà, di provare con libertà, e magari di sbagliare con libertà.

 

D.: Qual è stato il suo rapporto con la politica organizzata?

R.: Dal punto di vista pratico, il mio rapporto con la politica è stato un rapporto nullo, perché non vi ho mai fatto niente di pubblico. Ho sempre ritenuto che il livello di partecipazione politica si dovesse misurare nei confronti dei problemi specifici, e attraverso i canali a me più consoni: io davo il mio contributo facendo il mestiere che so fare non meglio ma meno peggio, quello della scrittura. Scrivere o far scrivere, organizzare un sistema capillare di distribuzione editoriale autogestito, ritenendo che la scrittura stava entrando nel gioco alto, nel problema della comunicazione che si faceva via via un problema anche politico. A me non è mai interessato cercare di fagocitare dei riconoscimenti: la questione della comunicazione è stata, da un certo momento in poi, un elemento nevroticamente, drammaticamente fondamentale.

 

D.: Sul rapporto tra politica e letteratura, le giro alcune considerazioni di Calvino [Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, 1976]: “gli anni della mia gioventù, a partire dal 1945 e per tutti gli anni Cinquanta e oltre, hanno avuto come problemi dominanti i rapporti tra lo scrittore e la politica. Potrei dire che ogni discussione girava intorno a questo punto. La mia generazione potrebbe essere definita come quella che ha cominciato a occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo. Negli ultimi anni invece mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi, affrontando queste due problematiche, provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere”.

R.: Chi scrive deve ritenersi assolutamente libero, deve scrivere senza rendere conto a nessuno, e non per esercitare in proprio una libertà astratta, ma per utilizzarla in vista della partecipazione, dell’impegno diretto. Io penso a un rapporto tra letteratura e politica in termini assolutamente rovesciati rispetto al discorso di Calvino (e alla nostra generazione): la poesia, per me, è vincolata alla politica in modo assoluto, naturale, direi fisiologico. Ho sempre detto, e volentieri ridico, suscitando ilarità, che ogni volta che scrivo una poesia io parto non dalla presunzione, ma dalla convinzione che sto partecipando a rifare il mondo. Nella prima edizione di Dopo Campoformio,pubblicata da Feltrinelli, c’è un risvolto che faceva riferimento a un commento di un critico in cui si parlava della mia poesia come l’equivalente di 100 colonne di piombo versificato”. Scrissi che non la ritenevo una offesa, che si confaceva invece alle mie intenzioni, che ogni mia parola cercavo di scavarla come dentro un sasso. La scintilla da cui partivo era il conflitto tra individuo e società: scrivo perché sento che a un capo è l’individuo, all’altro è la realtà, la società.

 

D.: Come si è realizzato nella sua opera il confronto tra le potenzialità di un’operazione letteraria così intesa, e la consapevolezza dell’inefficacia, la coscienza autocritica dei limiti (dell’“imperfezione”) della parola poetica?

R.: Vivendo la poesia e cercando di superare la precarietà, la sensazione di impotenza (quando non di complicità), dell’atto poetico. Senza lamentarlo, rendendo inquieto il proprio scrivere: teso non a comunicare un’amarezza ma a esprimere la vibrazione di una ricerca. L’emarginazione può essere patita come un dolore, una sconfitta totale, il gioco perso con la propria vita. Personalmente questo non mi tocca. Parto dalla convinzione che un impegno reale può essere compiuto solo se non si accetta nulla dal Potere (che non propone nulla che noi non sappiamo già), e che tutto ciò che si fa, va fatto per superare le contraddizioni che sono lì, davanti a tutti. Anche nel sistema tecnologizzato e quasi invisibile, intangibile, della comunicazione odierna (dell’esplosione di internet, per intenderci), dobbiamo pensare che la comunicazione e la scrittura partono sempre da una matita e da un foglio, e da una matita che scrive su un pezzo di carta. Questo è l’atto fondamentale della comunicazione. E allora la comunicazione è data da chi parla voce a voce, giacché non si può pensare di far ammutolire proprio tutti, di abolire la vendita di una matita, di impedire la vendita della carta. Il tutto deve partire da una ovvia constatazione: che il mondo prospera, vive e si espande attraverso uno sfruttamento diabolico anche se mistificato di una parte dell’umanità.

 

D.: Sono passati quasi cinquant’anni dall’esperienza di “Officina”. Ha potuto aggiornare il suo giudizio su quella fase in cui si trovò a operare, tra la crisi di un mondo (non solo) culturale che stava perdendosi e l’incalzare della neoavanguardia?

R.: Il Gruppo 63 tendeva a rinnovare tutto, agganciandosi alle grandi avanguardie del Novecento soprattutto straniere (era Arbasino, se ricordo bene, che diceva che i letterati italiani, sino alla conclusione della guerra, non erano mai andati oltre Chiasso, per stabilire un provincialismo culturale che per lui era da osteggiare, da canzonare: senza capire, non conoscendo le condizioni della vita culturale sotto il fascismo). Nella neoavanguardia non c’è alcun riferimento alla guerra. Ho provato, per divertirmi, a rileggere i loro romanzi, le loro poesie, i loro manifesti “gridati” come ai tempi del futurismo: niente, nemmeno una parola sulla guerra. Quelli di “Officina”,come me, erano usciti tutti da lì, l’avevano fatta, provenivano dal fascismo, avevano subìto dei lutti, delle perdite. All’interno della rivista le rovine della guerra erano evidenti, ci si muoveva tra i calcinacci. Il Gruppo 63 si muoveva invece in un albergo con le camere ben riscaldate, i lampadari accesi, la televisione. Non è un fatto solo generazionale. Mi sembra che persino in un personaggio come Romanò, che in “Officina” è intervenuto con pagine estremamente suggestive e acute (Romanò, non dimentichiamolo, di area cattolica), il collegamento con il sangue, il cuore della storia era evidente. Si era un po’ tutti imbrattati di sangue, in un certo senso. Sul piano letterario, cercavamo di verificare i nostri collegamenti, le nervature che avevamo con la tradizione, con il Novecento italiano. È stata un’operazione appena accennata, non certo portata a compimento. Direi che molte polemiche e qualche risultato letterario del Gruppo 63 sono stati positivi. Ciò che non accettavo era il loro “smanazzare”, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttar tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà.

 

D.: L’impegno “civile” della sua scrittura si è progressivamente calato in una struttura letteraria mossa, turbata da uno sperimentalismo linguistico e da un’elaborazione stilistica assai intensa e inquieta. In quali direzioni si è articolata la sua ricerca formale?

R.: Ho sempre cercato di tenere gli occhi ben aperti su ciò che si faceva, si proponeva, in ogni direzione. Registrazione di eventi non è certo un romanzo tradizionale. Tiene conto d’un bel numero di fermenti, di sollecitazioni, di lacerazioni interne. Anche in Dopo Campoformio e nelle Descrizioni in atto utilizzo un linguaggio stratificato, il discorso giornalistico insieme al parlato quotidiano, eccetera. Ma con la cautela che mi veniva dal rispetto riferito ai miei lettori, che quantificavo in otto, dieci unità. Li vedevo naso per naso, occhio per occhio: il mio lettore auspicabile non era il lettore universitario o raffinato. Era il lettore che aveva, in quel momento, un interesse per quei problemi che affrontavo: mi leggeva, ma non mi cercava, si imbatteva in me coinvolto dall’interesse per le questioni che trattavo. Questo non mi spingeva a realizzare qualcosa di semplice, di leggibile: nei Diecimila cavalli credo di essere quasi illeggibile. L’importante, per me, è sempre stato cercare di immettere nella mia pagina le tracce della situazione convulsa nella quale si viveva, di essere denso, di porre dei problemi.

 

D.: Mi sembra, per concludere, e nel tentativo di operare un bilancio della sua attività, di poter parlare di una coerenza esemplare, di una conformazione unitaria e “integrale” del suo impegno intellettuale: che si esplicita nell’intreccio (esemplificato nel caso delle Descrizioni in atto, del teatro) tra il messaggio politico, la ricerca linguistica e la vita (clandestina, autogestita, “libera”) che ha destinato a quelle poesie, alla sua scrittura.

R.: A dire il vero, non mi interessa tirare una somma, parlare di risultati personali. Non mi interessano. Piuttosto, se vogliamo concludere, per definire ciò che intendo per “letteratura politica”, vorrei riprendere un’affermazione di Fortini, il quale diceva provocatoriamente che una poesia può essere politica, anche se parla di una rosa: se la si utilizza non per consegnarla a una ragazza ma per essere deposta sulla tomba di un guerriero caduto.

Bologna, 16 giugno 1996-16 febbraio 2003

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Fabio Moliterni
  • Tipologia di testo: intervista
  • Testata: Roberto Roversi. Un’idea di letteratura
  • Editore: Edizioni dal Sud
  • Anno di pubblicazione: 2003
Letto 3123 volte Ultima modifica il Mercoledì, 06 Marzo 2013 14:37