Biografia
La presente biografia, redatta in forma di cronologia, è stata compilata da Salvatore Jemma.
1923
Roberto Roversi nasce il 28 gennaio a Bologna da Antonio Roversi, Direttore del “Servizio di Radiologia” dell’Ospedale Mussolini, e Clementina Colombo. Le elementari, come lui stesso ricorda in un libro di M. Marchesini, Perdersi a Bologna. Guida insolita e sentimentale, le farà «in fondo a via Galliera, alla De Amicis. (…)». Poi, successivamente, «al Galvani, dove ho fatto il ginnasio e il liceo, al di là degli alunni c’erano ottimi studiosi di lingue classiche. Qualcuno fece anche carriera universitaria. E c’era il filosofo marxista Galvano Della Volpe, di cui allora ovviamente non conoscevamo gli studi, ma che ha segnato senza dubbio parecchi studenti del liceo. Io ero in un’altra sezione, in classe con Leonetti, com’è noto. Allora, quando ci guardavamo attorno tra i compagni di scuola, sapevamo già che Pasolini era un alunno di valore, interessato soprattutto alla poesia (…). Quando stringemmo amicizia con Pasolini, però, cominciammo a vederci con lui quasi tutti i giorni».
1939
Inizia la sua scrittura in poesia: una prima poesia la scrive per l’invasione della Polonia da parte della Germania, intitolata “Cavalleria Polacca”». Dopo questa ne seguiranno altre, tre o quattro furono inviate a Saba che gli rispose in breve tempo: a seguito di questo contatto comincia a leggerlo con attenzione. Di lui dice, sempre nel libro di Marchesini, «ho letto Saba molto prima di Ungaretti e Montale. Subito dopo Saba ho letto Campana, nel librettino giallino di Binazzi. Però in assoluto il primo italiano che ho letto, per un incontro del tutto fortuito, è stato Thovez».
1940
Incontra gli scritti di Tommaso Campanella, il suo riferimento di una vita; così descrive quel momento, in uno scritto di molti anni dopo, Guardare ascoltare. Mescolare tutto ma non in modo confuso, in Come si scrive un romanzo, curato da M.T. Serafini: «rintanato senza affanno in una casa isolata, in una stanzetta non più grande di una mano, con quattro sacchi di grano appoggiati a un muro e lui seduto sul quinto, morbido morbido, vicino a una finestrella. Da lì ha preso l’avvio, si può dire, per quanto riguarda il privato atto di scrittura. (…) [I]l giovane nel leggerlo sbalordiva, si stravolgeva, si pigliava mal di stomaco e la nausea dietro questa esaltazione gridata; ed era spinto a specchiarsi precipitoso incatenato insolente ma pazzo di curiosità per il mondo che fuori avvampava. In quanto, oltre la finestra finestrella, su un’altura di scarso rilievo ma ben definita, distante non più di quattrocento metri o forse meno, una batteria tedesca con cannoni e Nebelwerfen e cinquanta cruchi messi intorno, pronta a dare battaglia e a ricevere battaglia, era disposta in un’attesa piena di sospetto».
Allo scoppio della guerra Roversi ha 17 anni; alla libreria Cappelli fa la conoscenza di Meluschi e comincia a frequentare lui e la moglie Renata Viganò. È grazie a loro che il giovane Roversi forma una propria coscienza antifascista, ed è sempre attraverso di loro che compirà le scelte, successivamente, portandolo prima ad allontanarsi dai gruppi fascisti e, poi, a scegliere la lotta partigiana; «se feci scelte diverse dai miei compagni lo devo comunque a loro».
1941
Attraverso l’amico Meluschi, appare su “L’Avvenire d’Italia” la sua prima scrittura critica, un articolo sulla poesia di Carlo Betocchi. Successivamente, e sempre grazie a Meluschi, pubblica su “Architrave” uno scritto sulla poesia di Sandro Penna, dal titolo Sandro Penna o della grazia poetica; la levità che caratterizza quella poesia lo affascina e cattura, lo attira – per il brillio che emana – nell’ordito di quella sottile tela di ragno: In un colloquio con Gianni D’Elia, apparso sulla rivista “Lengua”, dirà: «Per me è così. Anzi, era così. Mi sembrava che questa sua estrema leggerezza da fiato nel vento… ma poi ero impacciato, non riuscivo a definire bene le cose… questa sua semplicità davvero straordinaria». In quegli anni le sue “letture vere” saranno «Colloqui con Goethe, di Johann Peter Eckermann e le canzoni di Tommaso Campanella e «per rapidi e brevi passaggi trasversali» arriva a Hoelderlin. Poi troverà pure la poesia di Rebora, e anche questo incontro sarà abbastanza sconvolgente e travolgente, pari forse a quello avuto con Campanella. «Mi rendevo conto», dirà in quel colloquio appena citato, «che la poesia non è solo il testo che scrivi, o che leggi; che puoi scrivere o puoi leggere; ma che richiede per essere giustamente scritta e giustamente letta, secondo le proprie opinioni, una partecipazione d’attenzione continua alle cose del mondo. Era una giovanile deduzione, che ancora conservo».
1942
Pubblica il suo primo libro, Poesie, edito dalla Libreria Antiquaria Landi, che è anche editrice, con l’assistenza economica del prozio Rigoberto Smeraldi.
1943
Pubblica, in trenta copie, il libro Rime, volume che viene dedicato a Campanella: “A Th.C. vir qui omnia legerat / omnia meminerat / prevalidi ingenii / sed indomabilis”, una dedica che, abbreviata al solo “A Th.”, rimarrà come costante nelle sue pubblicazioni. Il libro esce sempre per i tipi di Landi, ma dopo poco non ne è soddisfatto e allora, delle copie che riesce a recuperare, decide di farne un fuoco e le brucia. Ancora con Landi, pubblica il romanzo Umano.
I bandi del novembre trovano il giovane Roversi smarrito: vorrebbe non andare, ma per i renitenti c’è la fucilazione; ne parla con Meluschi, per un consiglio, e questi gli suggeriscono di presentarsi, «poi si vedrà»; e così fa, finendo in Germania, con la Divisione Monterosa, dove viene addestrato l’esercito della neonata Repubblica di Salò; ritornato in Italia, è spedito sulle montagne piemontesi; da lì, per mezzo di un sottoufficiale già legato alla Resistenza, assieme ad altri compagni si unisce alla lotta partigiana: «patii soltanto con tutte le forze, ma non più con rassegnazione», come scriverà egli stesso nella Notizia su Roberto Roversi, apparsa su “il menabò”, per le poesie che Vittorini gli pubblicherà nel ’60.
1945
Nel giugno ritorna a casa, a Bologna.
1946
Ripresi gli studi interrotti, nel marzo si laurea in filosofia con una tesi su Nietzsche dal titolo Le origini dell’irrazionalismo di Nietzsche studiate nelle opere giovanili; ma le sue propensioni sono prevalentemente storiche, il Risorgimento soprattutto, però quello composto dei «fatti minuti, sottratti alla pompa dei velluti e delle medaglie e delle barbe dei vincitori». Chiede e ottiene di diventare assistente di Giovanni Natali, presso la cattedra di Storia del Risorgimento all’Università di Bologna, con il proposito di indagare al di fuori della ufficialità, ma «niente, neanche mi ascoltavano».
1948
Si sposa con Elena Marcone; con lei condividerà tutta l’esperienza della libreria Palmaverde. Lascia l’Università; è il periodo durante il quale lavora ai racconti, che pubblicherà poi nel ’52, Ai tempi di re Gioacchino, dove si può ritrovare sia quella sua propensione agli studi storici che il voler “leggere” più approfonditamente i «fatti minuti». Chiusa l’esperienza universitaria, comincia a guardarsi attorno per trovare un’occupazione che gli permetta di «guadagnarsi il pane». Il prozio Rigoberto gli spiega che «time is money, che occorre agire, dedicarsi al business, “e non stare a padrone”». All’improvviso, quell’anno si presenta l’occasione di diventare libraio: un nobile aveva deciso di smobilitare casa e di vendere l’archivio; quest’ultimo era finito a un rivenditore di carta straccia. Otello Masetti, capo commesso della libreria Cappelli, lo avverte e assieme decidono con un prestito di acquistare quel fondo che era stato stivato in sacchi di iuta. Quello è l’iniziale fondo librario della Palmaverde; il nome viene scelto estraendo a caso, da uno dei sacchi, un libro che si rivela essere un annuario di Casa Savoia dal nome Il Palmaverde. La primissima e provvisoria sede è in una stanza che il parroco di San Michelino affida loro, si tratta di un primo piano attaccato alla chiesa stessa. Successivamente, la sede si sposta in un cubicolo dentro un’antica torre, all’angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza.
1949
Nell’aprile di quest’anno, Giorgio Bassani, redattore della rivista “Botteghe Oscure”, gli scrive una lettera, annunciandogli che le poesie da lui spedite «sono piaciute, e che verranno pubblicate certamente nel numero 4 (…)». L’invio delle poesie, da parte di Roversi, era stato quasi semi anonimo, essendosi firmato col solo cognome per cui Bassani, oltre a assicurargli che i suoi versi «sono stati per me è stata una lieta sorpresa», gli sottolinea che «Non so chi sia lei, se sia giovane o anziano, se maschio o femmina [questo aggiunto a penna]», raccomandandosi «mi scriva, dunque, e mi sappia dire qualcosa di lei, compreso possibilmente il suo nome di battesimo».
1950
Nasce il figlio Antonio.
1951
Negli anni, almeno fino agli ’80, Roversi editerà con il marchio “Libreria Antiquaria Palmaverde” un grande numero di libri, molti compresi in numerose collane, e alcune riviste; per le collane si ricordano: la “Collezione di Opere inedite e rare” i cui quattro volumi usciti sono Andrea da Barberino, L’Aspramonte. Romanzo cavalleresco inedito; Gaspare Visconti, Rime; Giovan Giorgio Alione, L’opera piacevole; Michelangelo Tanaglia, De Agricultura; le opere di questa collana, precedentemente, erano a cura della “Commissione per i testi di lingua”, che cessò le pubblicazioni nel ’40; Carlo Calcaterra affida a Roversi la ripresa delle pubblicazioni; oltre a questa, la libreria editerà la collana di “Studi mediolatini e volgari”, la collana “Biblioteca Musicale della Rinascenza” e la collana “Biblioteca del Conservatorio G.B. Martini”, queste ultime due curate da Giuseppe Vecchi; la “Biblioteca di Cultura”, diretta dallo stesso Roversi, per la quale qui si cita la Storia del calcio (1863-1963), di Luciano Serra, e Le poesie di Martin Soares, di Valeria Bertolucci Pizzorusso; la collana “Biblioteca degli Studi Mediolatini e volgari”, nella quale si trova una preziosa edizione critica a cura di Marco Boni de Le poesie, di Sordello e Le biografie trovadoriche, curate da Guido Favati.
1952
Edita per i tipi della Libreria Antiquaria Palmaverde, nella collana “Il Circolo”, due libri di Leonetti, Antiporta e Poemi, e il proprio Ai tempi di re Gioacchino.
1953
Per il tramite dell’amico Giuseppe Guglielmi, Roversi incontra Luciano Anceschi per discutere la realizzazione di un’eventuale rivista. L’incontro non sortì alcun risultato. Anceschi fonderà poi “Il verri”.
Gli scrive Leonardo Sciascia, ringraziandolo per l’invio di Ai tempi di re Gioacchino.
1954
Leonardo Sciascia cura la pubblicazione di Poesie per l’amatore di stampe, l’editore è Salvatore Sciascia, omonimo ma non parente. Roversi ne ricorderà, anni dopo, per l’Associazione “Amici di Leonardo Sciascia”, l’incontro e l’amicizia: «nel 1954 ebbe la buona attenzione e la grande cortesia di accogliere nella serie di libretti di poesia che si apprestava ad avviare, una mia raccoltina; che uscì affiancata a Pasolini e a Romanò. Negli anni seguenti, durante i suoi viaggi sempre più frequenti verso Milano o verso Torino, spesso si fermava per un giorno o anche solo per una mezza giornata a Bologna. Ricordo, a questo proposito, che nel 1965, ritardando l’invio di un suo intervento per “Rendiconti” (la rivista che allora curavo), si scusava ma spiegava di affondare, in quel momento, oltre che nei malanni, nell’inedia; e di essere proprio a terra. Mi ci vorrebbe, precisava, un bel viaggio, lungo, spensierato, e un bel soggiorno a Bologna, città per me straordinariamente riposante. Mi lusingò molto, poi, l’aggiunta che volle dedicarmi, sostenendo che la città, in effetti, si riduceva alla mia libreria antiquaria e alla mia compagnia».
Poesie per l’amatore di stampe è il libro sul quale Giuseppe Zagarrio, uno dei primi e più attenti critici della poesia roversiana, formula alcune interessanti considerazioni, trovandovi intanto una ben delineata tecnica della ritrattistica e della propensione a stilare una certa galleria di eroi, ma privi della pomposità che caratterizza generalmente l’eroe nella stereotipata retorica istituzionale.
1955
Nel maggio esce il primo numero di “Officina”; i redattori, oltre a Roversi, sono Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini. La rivista, almeno inizialmente, realizza un vecchio progetto che i tre, studenti prima dello scoppio della guerra, avevano vagheggiato col nome di “Eredi”. A loro si affiancheranno con una certa continuità, Angelo Romanò, Gianni Scalia e, in seguito, Franco Fortini. Della rivista usciranno 12 numeri di una prima serie e 2 numeri di una seconda serie, per chiudere la propria esperienza nel ’59. “Officina” proponeva una letteratura realista e sperimentale, attraverso la rilettura delle eredità ottocentesche in chiave militante. C’erano ancora le macerie della guerra, i disastri di questa, e il mondo della cultura si apprestava a diventare “l’industria culturale”. È anche dentro questa grande trasformazione che si può leggere la crisi che subì la rivista e le scelte future che Roversi appronterà.
1958
Muore il padre Antonio; due anni prima aveva subito un intervento di amputazione di un dito alla mano destra, per via della continua esposizione alle radiazioni, nell’uso della macchina adibita ai raggi x, utilizzata per la propria professione.
In quell’anno e fino al ’63, la libreria Palmaverde si trova in via Caduti di Cefalonia, un negozio aperto al pubblico, ma fu un esperimento a detta di Roversi non felice.
1959
L’esperienza di “Officina” si chiude con il n. 2 della “Seconda serie”; il motivo “ufficiale” è quello dell’epigramma sul papa Pio XII, scritto da Pasolini, che invece creò «solo alcuni problemi privati dell’editore Bompiani», afferma anni dopo Roversi. La verità è più interna; la presenza degli ulteriori redattori Fortini, Romanò e Scalia, collaboratori e interlocutori già molto attivi, se prima del loro ingresso in redazione non intervengono direttamente nella chiusura redazionale, permettendo ai tre ideatori di concludere ogni numero «su alcuni principi di base», ora la loro presenza rende le cose più complicate. Naturalmente, le cose sono più complicate perché, come confida nel già citato scritto apparso sulla rivista “Lengua” «tutti i conti dentro di noi (…) non li avevamo fatti ben bene (…). Avevo l’impressione che invece di addentrarci a ricercare dentro urgentissimi dubbi e zone tutt’ora d’ombra, fossimo promotori… o anche solo direttamente partecipi di una qualche assoluta chiarezza che ci disponevamo a distribuire».
Esce Caccia all’uomo; questo romanzo è la rielaborazione dei racconti apparsi nel ’52 in Ai tempi di re Gioacchino. Esce un suo scritto su “Nuova Corrente” a proposito di un dibattito lanciato dalla rivista sul realismo. L’intervento di Roversi, in risposta a G. Sechi, è un incisivo e rapido excursus sui pochi anni passati, da quelli del dopoguerra, con le speranze nate dalla lotta di liberazione, a quelli della ricostruzione e, successivamente, al ritorno all’ordine. La critica di Roversi è contro il neorealismo, ma si appunta principalmente su una parte di esso, la sua espressione diremmo patetica, che lui definisce zavattiniano, accusandolo «di una falsità di fondo involuta ed esasperante, intellettualmente deamicisiano, decadente e calligrafico». Sempre in questo scritto, accenna pure al lavoro svolto da “Officina”, visto se non con totale soddisfazione almeno con un certo favore, che gli fa dire che «fu proprio la consapevolezza di dover rimeditare, con una cautela attenta e puntigliosa, e con una novità acre, se possibile, sui problemi storici e morali, a radunare l’esiguo gruppetto di “Officina” per un lavoro non so se più ingrato o faticoso, che s’è protratto per alcuni anni (…)».
1960
Esce su “il menabò”, la rivista fondata da Calvino e Vittorini l’anno prima, La raccolta del fieno, un gruppo di poesie – quarantasei – che erano apparse negli anni precedenti sia nel volume Poesie per l’amatore di stampe che su “Officina”; il gruppo entrerà poi a far parte del volume feltrinelliano Dopo Campoformio. Per Roversi, Vittorini rimarrà un riferimento culturale e intellettuale molto forte.
Edita, sempre come Palmaverde, L’inverno del signor d’Aubigné, tradotto dall’amico Giuseppe Guglielmi; il volume contiene tre acqueforti di Luciano De Vita.
I primi anni ’60 si riveleranno «febbrili e intensissimi», per usare le parole di Zagarrio, sia per il dibattito aperto sulla letteratura che per l’affluente neocapitalismo, il quale sta prendendo piede sotto forma dello stracitato boom economico. Roversi interviene da protagonista in questo dibattito, sia su riviste come “il menabò”, “Nuovi Argomenti”, “Quaderni Piacentini”, “Nuova Corrente”, “La fiera letteraria”, “Quasi”, sia attraverso “Rendiconti”, che fonderà nel ’61, da lui stesso definita uno strumento per affrontare, attraverso un impegno metodologico costante, i problemi che venivano precisandosi in quella stagione.
1961
Esce il primo numero di “Rendiconti”; con questa rivista «si è inteso – sia pure attraverso scompensi che un lavoro (così) impegnato produce – ricercare nuove metodologie e aprire a nuove direzioni problematiche, predisponendo, o almeno ricercando, gli opportuni agganci; quindi si è tentata (e si tenta) non tanto un’opera (un lavoro) di aggiornamento, ma una vera e propria operazione di scavo, molto cautelosa e specifica, per la verità, e senza smanie; ma possibilmente precisa, persistente e attenta», dirà Roversi successivamente nel ’73, in uno scritto apparso nel libro collettaneo curato da F. Camon, La moglie del tiranno. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, in Italia, lo sviluppo culturale scopre il mercato capitalistico. In questa situazione, “Rendiconti” tenta di affondare la lama della riflessione politica e sociale attraverso la scrittura e la comunicazione culturale, per cercare di giungere a una funzione diversa della letteratura e dello scrittore in questa società. È il momento del furore, della “rabbia politica” di Roversi verso la realtà presente, senza che tutto ciò comporti in lui strepiti o urla, si tratta invece di rabbia espressa per ciò che non è (stato) e per quello che è (nuovamente). La “rabbia” di Roversi, come scriverà in un numero del ’62 della rivista, dal titolo La settima zavorra è «per la o per una realtà autentica che, anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e isterilisce – anche i propositi migliori». Questa distanza, immediata, precisa, dalla parola letteraria (poetica) che gli appare vuota se non è subito riempita del mondo e dalle cose che vi agiscono, che si patiscono anche, è quella che Roversi introdurrà fra sé (e il proprio lavoro) e la maggior parte delle “Lettere” e dei letterati più acclamati.
Esce il film La “menzogna” di Marzabotto, per la regia di Carlo Di Carlo, del quale ha scritto il testo. Alla realizzazione del film collaborano anche Renata Viganò, Antonio Meluschi e Renzo Renzi. Il testo di Roversi viene letto da Nando Gazzolo. Negli anni, Roversi collaborerà con Carlo di Carlo per altri film e documentari: Terre morte e Isola di Varano del ’62, Vivere con la bomba del ’63, Bologna del ’65, Il fuoco della città dell’81, Marzabotto dell’84 e Un film per Montesole del ’95.
1962
Pubblica con Feltrinelli Dopo Campoformio, che nel ’65 uscirà in una versione rivista per Einaudi. È sempre Zagarrio a cogliere nella voce roversiana un momento di trapasso. Il riferimento è su quanto egli scrive a proposito de Il tedesco imperatore. Il critico vi nota il ricorso «a certo modo epico ottocentesco di estrazione carducciana», per poi concludere che «la stessa tempesta di varianti a cui lo dovrà sottoporre sarà la prova delle grosse difficoltà incontrate nell’impresa di farlo davvero suo»; ma Il tedesco imperatore si colloca come epica apertura verso un periodo che doveva essere fissato nei suoi tratti essenziali, e la sua dolorosa chiusura per fare i conti con la diversa situazione di un mondo con il quale bisognava cominciare a fare i conti. Infatti, nella successiva edizione a quella feltrinelliana di Dopo Campoformio, il poemetto verrà giocato proprio con questa finalità, come si può leggere nella breve nota di Roversi: «le composizioni che qui si ripresentano, dopo una diversa edizione, hanno una collocazione dentro a un tempo ben preciso in cui vogliono e devono confondersi e riconoscersi (…); e in cui trovano i rimandi e i riscontri necessari per l’intelligenza delle cose dette o solamente accennate con arguzia (…). In quel tempo imprevedibile e caotico nel senso del nuovo che cominciava, si collocano».
1963
La Palmaverde si trasferisce in via Castiglione. Cominciano a uscire le prime descrizioni in atto, cinque per una cartella di acqueforti di Giuseppe Guerreschi, due sul n. 8 di “Rendiconti”.
1964-1965
Rizzoli pubblica Registrazione di eventi, il suo secondo romanzo. I problemi che il neocapitalismo innesta sono enormi e la letteratura ne è invasa, non c’è rivista importante che non ne affronti le questioni. Una nuova realtà si para davanti agli occhi: quella della fabbrica come sistema culturale che si impone, anche imponendo quelle merci che lì si producono; quella di un mercato che estende la sua capacità di penetrazione e, inoltre, quella di una nuova comunicazione che invade e si situa sulla scena, quale linguaggio aggregante e pervadente, capace di scavalcare d’un tratto i vecchia arcaismi e le logiche da “repubblica delle lettere”, facendole subito invecchiare o facendole soltanto sentire tali. Per Roversi i problemi sono esattamente quelli che veniva maturando da tempo, già negli anni di “Officina”: se quanto aveva fino ad allora fatto entrerà definitivamente nella sua poetica e nella sua struttura linguistica, come ci erano già entrate con Caccia all’uomo le cose vissute durante i disastri della guerra, ora comincerà ad acquisire quel linguaggio duro e difficile, posto da una nuova situazione che si presenta, quella dell’«oggi che dobbiamo contraare».
È in questi anni che Roversi comincia a utilizzare, su varie riviste, le descrizioni in atto come un discorso che continua quello di natura squisitamente politico; da questo momento, Roversi mescolerà la propria scrittura critica e di riflessione con quella della poesia, utilizzerà cioè indifferentemente le due scritture senza soluzione di continuità, saggiando la seconda quale modalità di elaborazione politica tout court. Un esempio di questo lo si può rilevare consultando alcuni numeri dei “Quaderni piacentini”; sul n. 15 del ’64, Roversi parte con un intervento dal titolo Avanguardia e avanguardismo, una ulteriore precisazione della propria intenzione poetica contrapposta a quella della neoavanguardia; per alcuni numeri successivi i suoi interventi saranno in forma di poesia, appunto attraverso alcune descrizioni, a riaffermare così la politicità del proprio discorso e la funzione assunta dal suo linguaggio poetico.
Nel ’65, la rivista “Paragone – Letteratura” pubblica alcune altre descrizioni in atto; Fortini in un saggio critico molto preciso e approfondito, apparso sullo stesso numero, noterà: «Allora l’imbarazzo del critico, del lettore, dell’amico o di tutti e tre non è a proposito della qualità spesso molto alta di questi versi – in progresso sull’opera precedente di Roversi e su quella di altri poeti della sua età – ma a proposito della nota impossibilità di prendere alla lettera un testo che annunciandosi poetico la lettera rifiuta».
Pubblica per i tipi di Rizzoli Unterdenlinden, il suo primo lavoro teatrale; Roversi qui si confronta con l’“azione” della scrittura teatrale – come, non a caso la definisce lui stesso –, poiché l’idea di teatro in lui si chiarisce come uno dei momenti della messa in atto di quella forma di partecipazione a un evento “totale”, che è il rapporto diretto che la comunicazione può intraprendere.
1966
Muore Vittorini.
Esce su “Nuovi Argomenti” uno scritto che anticipa l’inizio de I diecimila cavalli. Alcune righe – mantenute poi nella edizione definitiva – sembrano suonare, e lo rileva anche Camon nel suo La moglie del tiranno, come risposta a quanto Fortini aveva scritto su “Paragone – Letteratura”, l’anno prima. Le righe di Roversi suonano così: «Piscia sul lamento dei timidi questo suono di piffero e sul vento di vele in disarmo. La battaglia delle idee; la battaglia e le idee; niente battaglia e niente idee».
1967
Unterdenlinden viene rappresentato presso il “Piccolo” di Milano, allora diretto da Paolo Grassi. La regia è di Raffaele Maiello; Gianrico Tedeschi interpreta il personaggio di Adolfo e Mimmo Craig quello di Bormann. Le recensioni saranno discordanti: da «farraginoso» ad «agile e solido», da «con sovente pause di monotona pesantezza» a «una macchina perfetta, lucente, scorrevole», da «secco, calvinista» a «noioso, lugubre», da «tetro» a «strappa i battimani a scena aperta». L’assunto di questo testo teatrale è quello sempre ripetuto in ogni scrittura di quegli anni – che il potere capitalistico sia, in ogni sua espressione, prevalentemente un potere di assoluta sopraffazione e, in definitiva, una delle forme attraverso cui la civilizzazione ha compiuto i propri passi. Adolfo, il personaggio che interpreta quel ritorno, quel risistemarsi delle vecchie vicende, è certamente un redivivo, una copia di qualcosa che è stato e che, alla bisogna, viene rispolverato e riadattato dal potere economico, il quale se ne serve pur di mantenere e sviluppare la propria forza dominatrice. È nella scena finale che un giovane, dopo aver sparato ad Adolfo – a quello che lui crede essere Adolfo, l’unico Adolfo – si rende conto di aver ucciso solo un sosia, uno dei tanti, poiché ecco che ne appare subito un altro, pronto a ricominciare “la vecchia storia”. Si allude marcatamente alle dinamiche che portarono all’affermazione del nazismo in Germania, ma si afferma che quelle dinamiche di sopraffazione sono presenti e operanti tuttora, si applicano ancora.
1969
Inizia la distribuzione de Le descrizioni in atto, la prima tiratura di una raccolta di testi iniziati nel ’63, che autopubblica ciclostilandoli e distribuendoli a chi gliene fa richiesta. Siamo all’atto di rottura con la prassi culturale, un’autopubblicazione che non viene scelta per mancanza o assenza dei riferimenti classici dell’editoria. Si tratta invece dello scavalcamento di quei meccanismi, di quei riferimenti, l’uscita dalle istituzioni culturali per un ragionamento su quanto dentro e fuori di esse stava succedendo, in termini di nuova comunicazione e conseguente mercificazione. La poesia, nel sottrarsi al mercato culturale, diventa ciò per cui vale la pena di pensare il mondo e la realtà. In un’intervista apparsa nel libro Roberto Roversi di Caruso e Martini, del ’78, ricorda «che la gestione della comunicazione è stato un problema di una certa sinistra negli anni sessanta. Col mio ciclostilato mi proponevo, senza voler stralunare il mondo o meravigliare l’inclita famiglia, di inserirmi in un problema seguente, più nuovo e anche più urgente, più di fondo: quello della gestione della distribuzione della comunicazione. (…) Volevo arrivare con le mie lettere a mano il più lontano possibile, più in dettaglio; e arrivarci da solo… In questo senso mi è parso di non aver perduto il treno. Ma è un dettaglio». Per lui questo significa acquisire fino in fondo la contraddizione tra l’essere della realtà (della politica, della società) e l’essere della cultura, e di farlo da una posizione appartata; «La mia posizione, in realtà, non era volutamente solitaria, ma partiva dalla convinzione che non c’era modo di fare opposizione in tale situazione se non stando da parte», dirà in un’altra intervista, questa volta del 2003, apparsa nel libro Roberto Roversi. Un’idea di letteratura di F. Moliterni.
È di quest’anno anche la pubblicazione su “Sipario” e poi la rappresentazione, sempre al “Piccolo” di Milano, de Il crack, per la regia di Aldo Trionfo. È il secondo lavoro teatrale di Roversi che, per il particolare periodo in cui è stato concepito, sviluppa in sé una radicale modificazione nello svolgersi della narrazione degli avvenimenti. Sono gli anni della contestazione, del movimento di lotta sia operaio che giovanile, della presa di coscienza di una intera generazione che non coglie certo di sorpresa Roversi, ma diviene per lui fonte di vivo interesse per quanto di diverso e di nuovo sembra innescare nelle dinamiche di un Paese come l’Italia che, da sempre, egli considera politicamente e socialmente asfittico. Come scrive Arnaldo Picchi nella nota finale che appare nella riedizione Pendragon: «Che Il crack sia costituito da due sezioni (le prime due parti, la terza), di tensioni e ritmo diversi, è visibile a colpo d’occhio ed è stato puntigliosamente segnalato come difetto grave dai recensori dell’allestimento del Piccolo di Milano (…) quasi si trattasse di due commedie appiccicate insieme». Non si tratta di «due commedie appiccicate insieme», ma lo scarto è certamente notevole e il motivo, lo si ripete, sta in quell’esplosione sociale e politica da parte degli «uomini nuovi». Il crack, questo spaccarsi di qualcosa – o l’implodere di quel qualcosa – sta a significare anche altro, come giustamente nota Roversi in questo passo del testo in cui fa parlare uno dei cinque ragazzi rinchiusi nella cella assieme al Padre: «La violenza è la rosa del sistema, un modo un poco sconcio però odoroso di esercitare il potere. La forza sulla bocca del fucile. Se offendi o premi loro ti sparano in due, in tre; e se spari anche tu, il tuo cannone o canna di moschetto è sempre più vecchio logoro più malandato o derelitto del loro Winchester nuovo a retrocarica. L’arco di quei pallini ammazza altro che anatre in volo». La critica questa volta fu unanime, e lo fu assieme al pubblico. Sempre Roversi, nella nota appena detta: «Il finale della serata fu un po’ smosso dalla contestazione di parecchi spettatori, che se la presero principalmente con il terzo atto (gente di sinistra, precisa Blandi, 1969, e non senza sarcasmo)». L’opera, per la critica, «impiega un linguaggio anche letterariamente pregevole, un dialogo costruito tutto su un ritmo straordinario di battute (Lazzari, 1969), sia pure, ma sterile (Polacco, 1969), teatralmente “sfuggente, ellittico, allusivo da mondo lontano” (De Monticelli, 1969a); opera insieme scheggiosa, incerta e ingenua» e così via.
1970
Esce, ancora per via di ciclostile e sempre fuori commercio, la seconda tiratura de Le descrizioni in atto (1963-70).
Calvino, avendone ricevuto una copia, scrive a Roversi chiedendogli di pubblicarlo con Einaudi, dove lui stesso lavora; ne riceverà un cordiale ma preciso rifiuto.
1971
Nel marzo, per la realizzazione di un’indagine sul neorealismo, Roversi presenta a Pasolini Alfredo Taracchini (Antonaros); di questo lavoro di Taracchini, Roversi pubblicherà alcune parti l’anno successivo sul n. 24 di “Rendiconti”, con il titolo Il neorealismo come letteratura di Stato. Da sottolineare come la collaborazione di Taracchini sulla rivista di Roversi proseguirà poi anche con indagini sui cantautori italiani, in particolare su Giorgio Gaber, un tema che evidentemente in questi anni comincia a interessare Roversi.
Pubblica La macchina da guerra più formidabile, per i “Quaderni del CUT” di Bari; si tratta del terzo lavoro teatrale di Roversi, che chiude una sorta di trilogia, che potremmo definire proprio della violenza. Se nel primo lavoro è la violenza tout court del potere ad essere rappresentata, senza che vi sia una vera e propria caratterizzazione della parte oppressa; e se il secondo mette in scena il trapasso da una violenza del sistema a quella di chi vi si ribella, ma che da quella sembra preso in trappola, questo terzo lavoro si sviluppa attraverso la lotta condotta tra un pensiero capace di cambiare le cose, cioè politicamente gravido, e il potere dominante che ne capisce la forza rivoluzionaria – nel mezzo stanno le miserie (o le provocazioni) dell’azione individuale e inutilmente violenta, insomma impolitica o politicamente strumentalizzabile. Il titolo, spiega la nota di Roversi che accompagna la riedizione Pendragon, riprende la definizione che De Sanctis diede «all’impresa dell’Encyclopédie di Diderot (1772), ventotto volumi in folio, di cui undici di tavole; un lavoro fantastico e un risultato fantastico, vale a dire: un autentico terremoto».
1972
Assieme ad altri, per garantirne l’uscita, firma la pubblicazione del giornale “Lotta Continua”.
Esce il libro di poesie di Tonino Guerra I Bu, che Roversi ha tradotto dal dialetto romagnolo e che Contini ha prefato. L’attenzione di Roversi per la poesia di Guerra sarà costante e si svolgerà nell’arco di quasi vent’anni, per non parlare dell’amicizia che li legherà per tutta la vita; nella collana “I serpenti acrobati”, da lui curata per Maggioli, accoglierà nell’82 il Miele. Poema; nell’87, usciranno La Capanna, con una postfazione dello stesso Roversi e il Viaggio, con una postfazione di Dante Isella; nel ’91, per l’editore Il Girasole, lo stesso che nell’89 aveva pubblicato L’Italia sepolta sotto la neve. Parte prima, esce L’impiccagione dei pesci grossi, che raccoglie disegni a penna di Guerra, sempre con una postfazione di Roversi.
Al “Teatro della Pantomima” di Bologna Arnaldo Picchi, regista che assieme a Renzo Morselli ha fondato nel ’68 il “Gruppo Libero”, un laboratorio di ricerca e sperimentazione teatrale, mette in scena La macchina da guerra più formidabile; Picchi, che negli anni ’80, diventerà docente presso il DAMS di Bologna, continuerà il suo rapporto con Roversi, curando la ristampa dei suoi lavori teatrali.
1973
Continua la stampa a ciclostile, arricchita di nuovi testi, de Le descrizioni in atto.
Inizia la collaborazione con Lucio Dalla. Dalla decide di cessare la collaborazione per i testi con Sergio Bardotti e Gianfranco Baldazzi (autori di quasi tutte le sue canzoni incise fino a quel momento), e si rivolge a Roversi per una collaborazione che produrrà tre album: Il giorno aveva cinque teste che esce proprio nel ’73, al quale seguiranno nel ’75 Anidride solforosa e, sotto lo pseudonimo “Norisso”, Automobili nel ’76 – un felice connubio artistico, pure se contrastato. Dice infatti lo stesso Dalla, in una intervista riportata nel libro E forse fu per gioco, o forse per amore, a cura di V. Pattavina, del 2001: «[I]n realtà, il nostro accordo prevedeva un solo disco, invece ne abbiamo fatti tre. Non è che Roversi cercasse il successo, cercava una risposta che non arrivava. Diceva: “(…) Mi piacerebbe agire in una zona dove normalmente non agisco e potere in qualche modo cambiare il percorso della canzone rendendola ‘civile’, non solamente fine a se stessa”. Non gli riuscì. Ebbe uno scontro con la casa discografica, e forse anche con me, perché in fondo io la rappresentavo. (…) Insomma, alla fine Roversi si ritirò».
Esce una prima versione ciclostilata di Enzo Re, il suo quarto lavoro teatrale.
1974
Giuseppe Zagarrio pubblica per i tipi di “Marzorati”, nell’ambito dei volumi Letteratura italiana, un importante saggio critico sulla poesia di Roversi.
1975
Gian Carlo Ferretti pubblica da “Einaudi”, nella collana “Saggi”, Officina. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta.
Le descrizioni in atto hanno una terza tiratura.
1976
È di quest’anno l’ultimo lavoro teatrale di cui si ha notizia, La macchia d’inchiostro, che sarà pubblicato trent’anni dopo, ancora con Pendragon; questo testo è incentrato sulla figura di Paul-Louis Courier, scrittore, ufficiale napoleonico, grecista, pamphlettista che operò tra il Settecento e l’Ottocento, per il quale Roversi dichiara «ammirazione costante, simpatia e tolleranza». Si tratta per questo testo, come riferisce Picchi, che cura l’edizione, «di una struttura in cui si combaciano e si sfalsano almeno quattro piani di significato. (…) [I]l primo (quello di riferimento) riguarda Paul-Louis Courier e la sua vicenda personale, storicamente documentata. Il secondo è quello che immediatamente ne discende, quello di P.L., grecista e disertore al campo di Marengo, che vale come commento distaccato, ironico, sia al primo che al terzo, quello su cui si muove Roversi, e dove si sdipanano, anche storicamente, sul corpo di questi ultimi sessant’anni, le sue riflessioni sul fare, sullo scrivere, sull’essere cittadini. Il quarto è la storia autonoma, sciolta, svincolata da tutto, di P.L.». Tra questi piani, l’azione si svolge come tra quadri che potrebbero benissimo essere considerate delle ‘gag’ o rappresentazioni clownesche o, ancora, scene da commedia dell’arte.
In questo stesso anno pubblica I diecimila cavalli con gli “Editori Riuniti”; se questo atto può sembrare un ritorno al mercato editoriale, è lo stesso Roversi a chiarire i motivi della scelta. In un’intervista data a Gian Carlo Ferretti e usata come nota introduttiva al romanzo afferma che «gli Editori Riuniti [mi] propongono di pubblicare questo libro; ho accettato e accetto come un atto di pratica politica, altrimenti il testo restava dov’era. Per convalidare questa scelta non si è sottoscritto alcun contratto o impegno; trattasi di uno scambio e così deve restare. Lo intendiamo libero e disinteressato. Do quello che posso dare perché mi viene chiesto, da una parte giusta, quello che ho». I diecimila cavalli è un romanzo dalla densità linguistica e politica avvolgente, fortemente simbolico, ma anche tenacemente aggrappato alla realtà, alla sua durezza e alla sua costante, sorprendente complessità. La violenza ne è elemento costitutivo, ma la ricerca di una conoscenza lo è altrettanto e, anzi, quest’ultima oscura e, tutto sommato, riesce a piegare la prima; e c’è «la pietà e l’esercizio della pietà», un sentimento necessario a comprendere e a costruire un’azione politica diversa, nuova.
Per i tipi della Palmaverde, pubblica in cento copie ciclostilate il primo romanzo di Alfredo Taracchini (Antonaros) Rapporti sperimentali.
1977
Esce il n. 30 di “Rendiconti” e l’esperienza di questa rivista pare chiudersi, forse non a caso in quell’anno duro e violento per Bologna; non ne usciranno altri numeri fino al ’92, quando proseguirà, dal n. 31 fino al n. 45 del ’99, per chiudere definitivamente la propria esperienza.
Enzo Re viene pubblicato in cinque puntate su “Bologna Incontri” (VIII, 1977, 10-12, IX, 1978, 1-2), ma come già si ricordava, risale al ’73 una sua prima uscita in ciclostilato; nel ’78 verrà pubblicato dai “Quaderni del CUT” di Bari, nel ’97 da “I Quaderni del Battello Ebbro” e, infine, da Pendragon nel ’99. Enzo Re «[È] un rimando o un riscontro inevitabili della cultura popolare bolognese. Piazza Maggiore dove l’azione si svolge è la piazza formatasi, architettonicamente, nel tempo di quel re; il palazzo in cui è stato rinchiuso lo tocchiamo ancora, perché è vivo; i fatti del libero comune di Bologna potrebbero rovesciarsi sui nostri tempi con intatta la tensione dei problemi. Perché quei fatti sono ancora dei nostri tempi, nel loro rapporto stretto. E ancora: la tomba del grande Rolandino è lì che riposa. Tutto combacia. Non c’è la polvere della storia ma il suo fiato grosso», dice Roversi in una nota che accompagna l’uscita del testo su “Bologna incontri”. Il lavoro gli è stato richiesto dall’Amministrazione Comunale e Roversi, da sempre coltivando l’idea di “azione” teatrale, accetta il lavoro, consapevole che utilizzare per la rappresentazione lo spazio di piazza Maggiore significava realizzare, in quel coinvolgimento popolare eccezionale, un rapporto ulteriore tra la vita della città e i suoi cittadini, per mezzo di un fatto culturale portatore di una precisa ideologia. La rappresentazione subì dei rinvii e alla fine non se ne fece nulla, con grande disappunto di Roversi sia per il lavoro fatto che per l’occasione persa dalla città; non giovò certo, nella polemica che seguì, il pretesto addotto da parte dell’Amministrazione Comunale circa il costo eccessivo che avrebbe avuto la rappresentazione, «quasi fossimo dilapidatori di pubblico denaro. Mentre al contrario, fin dal primo giorno, come impegno civile preciso, ci eravamo proposti di dimostrare che si poteva agire nel rispetto più responsabile delle spese», annota con malcelato sdegno su “Bologna incontri”.
È sempre di quest’anno l’impegno con la rivista “Il cerchio di gesso”, fondata da Roversi assieme a Gianni Scalia, Pietro Bonfiglioli e Federico Stame; la rivista, che esce sull’onda dei fatti successi a Bologna in quell’anno, viene poi assunta dallo stesso Roversi come un riferimento forte per l’intervento poetico e quindi politico (o politico e quindi poetico) su quanto stava succedendo in Italia e nella sinistra italiana – parlamentare ed extraparlamentare. Su due numeri de “Il cerchio di gesso”, pubblica alcune poesie scritte in questi anni settanta, che saranno poi raccolte, insieme ad altre, nel Libro Paradiso, del ’93. Comincia a uscire, almeno inizialmente come allegato a “Il cerchio di gesso”, “La Tartana degli influssi”, per le cure dei soli Maurizio Maldini e Roberto Roversi fino al settimo numero, poi dall’ottavo in poi si aggiunge Giulio Forconi. Si tratta di un foglio ripiegato in quattro, che raccoglie testi di poesia e che, come si legge nella dicitura sotto il titolo, vuole «iniziare un lavoro meno approssimativo, anzi magari rigoroso, sulla poesia scritta e parlata che i giovani, in questi anni, continuano a distribuire».
1978
A cura di Luciano Caruso e Stelio M. Martini esce per i tipi della Laterza il libro Roberto Roversi; del solo Caruso era uscito un saggio nel ’76, sempre con il medesimo titolo, nell’ambito della pubblicazione Scritti in onore di Cleto Carbonara.
1980-81
Il 2 agosto scoppia una bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, che uccide 85 persone e ne ferisce oltre 200.
Gli anni ’80 e i primi del ’90 saranno anni di intensa partecipazione da parte di Roversi alla realizzazione di iniziative molto specifiche, secondo la sua idea di far parlare la poesia, di renderla partecipe del e nel mondo. Tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80 la situazione della poesia, almeno in Italia, si era evoluta rapidamente. Il rapporto tra poesia e lettore, nel suo aspetto più appariscente, si mostrava con il fiorire di manifestazioni pubbliche di lettura, le quali promuovendo la stessa poesia per un certo periodo la spingevano verso una situazione più aperta e, per i tempi che sarebbero trascorsi, anche più problematica.
A Bologna questa situazione si compose anche sull’onda di un evento tragicamente importante, attraverso la serie di manifestazioni che, un anno dopo, ricorderanno l’attentato dell’agosto dell’80 alla Stazione ferroviaria. In quell’ambito, cura assieme a Bruno Brunini, Maurizio Maldini, Nicola Muschitiello e Mino Petazzini “Il foglio dei quattro giorni”; sul foglio viene così spiegato l’intento che lo anima: «Il presente foglio si propone di essere un registro, sia pure essenziale, degli stati d’animo dei giovani convenuti a Bologna per le manifestazioni del 2 agosto 1981», giovani che erano arrivati per il “Convegno internazionale giovanile”. Ne escono 6 numeri.
Assieme a Giancarlo Majorino, cura per la Savelli Editori, la collana di testi “Poesia e realtà”; ne verranno pubblicati 8 volumi, fino al febbraio ’82.
Nell’aprile dell’81, assieme a Taracchini, pubblica con Il pesce solubile, l’editrice del Cassero di Porta Santo Stefano a Bologna, sede degli anarchici, una breve inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, dal titolo Agosto è un pesce sventrato; questo tipo di collaborazione tra i due proseguirà sino al 2012, su quasi tutti i fogli e le riviste militanti da Roversi ideate o promosse.
Sempre dell’81 è la pubblicazione di Trentuno poesie di Ulisse dentro al cavallo di legno che, assieme a quelle poi riunite nel Libro Paradiso, raccoglie quella parte del lavoro che fa da ponte tra il periodo de Le descrizioni in atto e L’Italia sepolta sotto la neve. Con questi “libri-ponte”, la scrittura roversiana si colloca a un diverso livello di visionarietà e di capacità metaforizzante; il furore roversiano si è mutato in uno sguardo acuto e consapevole per le cose fatte, per quelle da fare, secondo le capacità e possibilità date – e forse anche oltre quelle, talvolta – con una parola che non si sente più ferita, per questo colpisce più in profondità. C’è poi quel sentimento di pietà già presente ne I diecimila cavalli – un sentimento rivolto anche verso se stesso, che dona a buona parte delle poesie di questo libro un velo di dolcezza.
1982
Attorno all’esperienza de “Il foglio dei quattro giorni” Roversi, assieme a un gruppo di giovani, costituisce la “Cooperativa culturale Dispacci”, come segno non effimero di un impegno verso l’intensificazione della comunicazione tra le persone per mezzo della scrittura. C’è in questo atto l’idea della creazione di piccoli nuclei, dell’attivazione di “minoranze specializzate” attraverso le quali ricostituire con la poesia una coscienza collettiva. Nel giro di un pugno di anni usciranno l’omonimo “Dispacci” (11 numeri, fino al 1987), “I Prati di Caprara” (6 numeri, 1985), composti e distribuiti gratuitamente, con diverse modalità; le riviste “Le porte”, che Roversi cura assieme a Gianni Scalia (tre volumi, fino al 1983), “numerozero” (4 numeri, 1986) e “Lo Spartivento” (77 numeri, dal 1986 al 1994, oltre alle letture di poesia nelle trasmissioni radiofoniche a Radio Città e Punto Radio e i reading in numerose Feste dell’Unità, scuole, piazze e, ancora, lavori di gruppo presso il Carcere minorile del Pratello a Bologna.
Il 16 giugno, al “Teatro della Pergola” di Firenze, nell’ambito del 45° Maggio Fiorentino, viene rappresentato Girotondo, un’opera in due atti per la quale Roversi ha scritto il libretto, liberamente ispirandosi a Reigen di Arthur Schnitzler. Le musiche sono del compositore Fabio Vacchi, che esordisce proprio con questo lavoro.
1984
Esce il primo gruppo di testi de L’Italia sepolta sotto la neve sul numero 5 di NORDSEE, una rivista di «Poesia in forma di manifesto», i cui curatori sono Marco Calabria e Maurizio Maldini. In questa edizione, il gruppo di testi che successivamente verrà definita come Premessa è indicata qui come Parte Prima.
L’esperienza con Dalla si era conclusa, non però quella di Roversi riguardo la scrittura di testi per canzoni; questa infatti riprende, anche se non in modo programmatico come l’aveva intesa nella precedente collaborazione, per alcune canzoni degli “Stadio”: di quest’anno è Chiedi chi erano i Beatles, presente nel disco omonimo; Bianco di gesso e nero di cuore, del ’91, presente nel disco Siamo tutti elefanti inventati; Ma se guido una Ferrari e Maledettamericatiamo, in dischi usciti nel ’95 e, nel 2000, La ragazza col telefonino, presente nell’Album Donne & colori, e un omaggio a Maradona con Doma il mare, il mare doma.
1985
La libreria trasloca in via de’ Poeti 4, la sua quarta e definitiva sede, fino alla chiusura nel 2007. Stampate per i tipi della Palmaverde, Le descrizioni in atto (1963-1970) sono alla loro quarta tiratura e due aggiunte; l’edizione è sempre fuori commercio.
1986
Nella collana di poesia “Paso Doble” diretta da Vito Riviello e Giorgio Weiss, l’editrice Il Ventaglio pubblica un volume di poesie che raccoglie testi di Roversi e della poetessa Luisa Giaconi la quale, come risulta dalla breve nota presente nel risvolto di copertina, è «coprotagonista di questo libro su iniziativa di Roberto Roversi (…), [una poetessa] del tutto ignorata, nonostante i suoi indiscussi meriti».
1988
Sul numero 8 de “Lo Spartivento”, oramai prevalentemente curato da Gabriele Milli, esce un nucleo di testi titolato Fuga dei sette re prigionieri che successivamente, assieme ad altri, comporranno l’intera Parte prima de L’Italia sepolta sotto la neve. Tra il ’90 e il ’92, “Lo Spartivento” ospiterà ulteriori parti del Poema, quando non addirittura l’intera Parte seconda, presente questa nel n. 58 dell’ottobre 1992; sono comunque numerosi i piccoli gruppi di testi che in modo diffuso e “clandestino” escono un po’ ovunque, con l’intento roversiano di farli passare da mano a mano.
Cura, con Silvano Ceccarini e Nicola Muschitiello, Il grande blu, il grande nero. Sedici giovani poeti del Mediterraneo, per l’editrice Transeuropa.
1989
Esce, a cura della casa editrice Il Girasole, un più consistente gruppo di poesie, dalla 82 alla 127, de L’Italia sepolta sotto la neve. Parte prima. Inizia la lunga collaborazione, che sarà interrotta solo dalla malattia che lo porterà alla morte, con la neonata rivista “ilfilorosso” fondata da Francesco Graziano, verso il quale Roversi nutrirà una viva amicizia e una grande stima intellettuale. Qui pubblicherà molta parte de L’Italia sepolta sotto la neve; questa collaborazione, infatti, data dal n. 6 di quest’anno fino al n. 51 del dicembre 2011; in quest’ultimo numero pubblicherà un gruppo di 10 poesie dal titolo I libri, il tarlo poi riprese, assieme ad altre, nel libro uscito postumo, nell’ottobre del 2012, Libri e contro il tarlo inimico, edito da Pendragon.
1990
Per le cure di Gabriele Milli, sul primo numero de “I quaderni de Lo Spartivento”, viene rieditata la raccolta de Le descrizioni in atto (1963-1973), quarta tiratura.
La rivista “Lengua”, diretta da Gianni D’Elia, pubblica un’intervista, curata dallo stesso D’Elia, a Roversi; lunga e approfondita e nella forma del dialogo, prediletta da Roversi, traccia e definisce il percorso a quella data del suo lavoro.
1992
Riprende a uscire “Rendiconti”, col n. 31, a precisare la continuità con quanto era stato lasciato temporaneamente nel ’77.
Nasce la nipote Caterina.
Il nipote Antonio Bagnoli fonda la casa editrice Pendragon, che diverrà un punto di riferimento editoriale importante per Roversi.
1993
Pendragon pubblica L’Italia sepolta sotto la neve (Parte seconda, 164-253); si tratta di un’edizione fuori commercio, stampata in 29 esemplari numerati e firmati dall’autore; la dedica è per la nipote Caterina.
Esce il Libro Paradiso, per i tipi di Lacaita Editore. Come scritto in copertina, i testi risalgono agli anni ’70-’80; alcuni di questi, assieme al testo omonimo e a Cento poesie, erano già apparsi sulla rivista “Il cerchio di gesso”; anche qui la dedica è alla nipote.
Un’altra importante edizione, sempre per i tipi della Pendragon, è la ristampa anastatica in unico volume della rivista “Officina”.
1994
Parte una lunga collaborazione, come è costume di Roversi quando l’iniziativa lo trova pienamente consenziente, con la rivista ENNERRE, diretta da Alba Morino; infatti, lo vedrà presente per quasi tutti i numeri pubblicati, da quest’anno fino al 2007. Nel 2005 e nel 2008 i suoi contributi verranno raccolti, sempre a cura di ENNERRE, in due libretti, Il timone e Il timone 2; i titoli presenti saranno, nel primo: Il terrore del terrorismo, Ribelle, ribellante…, La parola vertiginosa, L’ira, Recuperare, Kultur, Il ’68 dell’immaginazione, Alta, grande età; nel secondo: Ich war ein blinder Knabe, lieber Bellarmin!, Una nuova Resistenza, Le rivistine, Il mercato dei libri, Una specie da salvare, Padre, madre, figlio (o figlia, o figli), Padre, madre, figlio eccetera, Non la pungono le api?, Lontani nipoti, Piero Jahier, Il laico pensiero, Sarà il vento, il vento, il vento?
1995
Muore l’amico Giuseppe Guglielmi.
Per i “Quaderni del Masaorita”, curati da Salvatore Jemma, Maurizio Maldini e Gianni Venturi, una collana di libretti autoprodotti e liberamente distribuiti, esce la ristampa de L’Italia sepolta sotto la neve (Premessa, 1-81), con alcune varianti.
In un libretto autoprodotto, curato dall’amico Mimmo Cervellino, escono un piccolo gruppo di poesie dal titolo La gentile signora, per la Cridi Editrice.
1996
Per il volume collettivo Come si scrive un romanzo, a cura di Maria Teresa Serafini ed edito da Bompiani, pubblica lo scritto dal titolo Guardare ascoltare. Mescolare tutto ma non in modo confuso; si tratta di una sorta di saggio sulla scrittura narrativa, ma composto esso stesso in forma di racconto, nel quale appaiono a tratti momenti autobiografici, però svolti in terza persona.
1997
Enzo Re. Tempo viene chi sale e chi discende, esce per i tipi de “I Quaderni del Battello Ebbro”, a cura di Arnaldo Picchi.
Nello stesso anno Roversi, sempre sull’onda della “disseminazione comunicativa”, pubblica Tre invettive contro il tarlo, nemico del libro. Tre poesie, con l’editore Mugnaini.
Per l’editore Pendragon idea e cura la collana “l’Arca”; si tratta di volumi monografici che hanno come tema quei Paesi extracomunitari dai quali, da alcuni anni, arrivano numerosi immigrati; scritti proprio da coloro che da quei luoghi provengono hanno, secondo l’intento di Roversi, il compito di illustrare e dare riferimenti precisi su tali Paesi, a proposito delle loro consistenze culturali, economiche e storiche. Alla conferenza stampa per illustrare questa iniziativa presenzierà, cosa per lui del tutto inusuale, lo stesso Roversi. In tre anni, saranno pubblicati 18 volumi.
1998
Nel giugno di quest’anno, promosso dall’Università di Bologna, nell’ambito delle manifestazioni per “Bologna 2000 Città Europea della Cultura”, viene rappresentato nella piazza Santo Stefano della città il testo teatrale Enzo Re, per la regia di Arnaldo Picchi, la presenza canora di Lucio Dalla e la partecipazione di un nutrito gruppo di studenti del DAMS, i quali ricoprono i ruoli previsti dal testo.
1999
Nel giugno, Giorgio Guazzaloca vince l’elezione a sindaco di Bologna, primo politico di destra dal secondo dopoguerra a conquistare il Comune.
Dallo stesso mese, assieme a Salvatore Jemma, Roversi comincia a curare una sorta di samizdat totalmente autoprodotto e liberamente distribuito, “Il giuoco d’assalto”; l’esperienza durerà, tra fasi alterne, fino al 2002, per poi riprendere nel 2003 con il nome “Fischia il vento”, del quale usciranno solo quattro numeri; seguirà, dopo un lungo intervallo, nel 2010, “Foglio degli eremiti”, identico nelle intenzioni, ma con una veste un po’ meno dimessa. Questi progetti, messi in atto con attenzione alla lingua e alle vicende da comunicare e condividere, sempre secondo una metodologia pienamente roversiana, raccoglieranno interventi di riflessione sulle vicende politiche bolognesi e non solo.
Esce il n. 45 di “Rendiconti” dedicato all’opera e alla figura dell’amico Giuseppe Guglielmi; la cura è del fratello Guido Guglielmi e di Roversi stesso.
2001
È promotore, assieme ad Alba Morino, Giancarlo Majorino e Luigi Pestalozza, dell’iniziativa “Salvanda. Riviste di cultura una specie da salvare”.
L’editore Pironti pubblica La partita di calcio; si tratta, in realtà, de L’Italia sepolta sotto la neve. Parte seconda (164-253). Il diverso titolo è tratto dalla noticina in prima di copertina, che appariva nell’edizione fuori commercio del ’93.
2002
Nell’ambito dell’opera collettiva Cento libri per mille anni, edita dall’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, cura il volume XXXIII dell’opera, Dall’Arcadia al Parini. L’editore Pendragon pubblica La macchina da guerra più formidabile, a cura e con le note al testo e una proposta di riduzione teatrale di Arnaldo Picchi; il volume contiene anche una nota di Roversi del 1970; dello stesso anno e dello stesso editore la ripubblicazione di Unterdenlinden, sempre a cura e con le note al testo di Picchi.
2003
Esce Via Emilia. Quattro film sull’Emilia-Romagna, per la regia di Giuseppe Bertolucci, Francesco Conversano, Davide Ferrario, Nene Grignaffini. Roversi partecipa al progetto nella scrittura del testo del film Bologna e Bologna, del quale è anche voce narrante; un breve frammento di questo testo verrà pubblicato nel 2004 sul numero 109 della rivista francese “Po&sie”. I restanti film che compongono l’opera collettiva sono: Mondonuovo, con Gianni Celati; Due o tre cose che so di lei. La Romagna di Tonino Guerra, con Tonino Guerra; Segni particolari, da un’idea di Carlo Lucarelli.
2004
Pendragon pubblica Il crack, sempre a cura di Picchi, con una breve nota in quarta di copertina di Roversi.
2005
La rivista “Poesia” gli dedica il numero 198 con il titolo Roberto Roversi. Poesia al fuoco della storia.
2006
Esce il suo ultimo lavoro teatrale, La macchia d’inchiostro, composto nel ’76 il quale, come aveva scritto, era rimasto volutamente inedito; la cura e le note sono ancora di Picchi, la prima e la quarta di copertina riportano una breve nota di Roversi; l’editore è ancora Pendragon.
La sua libreria Palmaverde chiude i battenti. Dopo oltre 50 anni di attività, Roberto Roversi e la moglie Elena si ritirano dall’attività. Tutti i libri vengono acquistati dalla Coop Adriatica.
Nello stesso anno muore Arnaldo Picchi.
2007
Subisce la prematura morte dell’unico figlio, Antonio Roversi; era professore ordinario di Sociologia della comunicazione, all’Università di Bologna. Muore, ultracentenaria, anche la madre di Roversi.
2008
Luca Sossella editore pubblica Tre poesie e alcune prose, a cura di Marco Giovenale; il volume comprende: Dopo Campoformio nella versione del ’65, Le descrizioni in atto, nell’ultima tiratura dell’85 e i versi degli anni ’70 e ’80, riuniti nel Libro Paradiso; contiene inoltre due estratti dai romanzi Registrazione di eventi e I diecimila cavalli, e una scelta di scritti composti tra il ’59 e il 2004 dal titolo Materiale ferroso.
Esce Per impervi sentieri, un audiolibro edito da Bohumil Edizioni, nel quale Roversi legge un lungo brano tratto da L’Italia sepolta sotto la neve. Parte Terza.
2009
Pubblica Nuvolari frusta implacabile di velocità e furore con Pendragon.
Muore l’amico Francesco Graziano.
2010
Dà alle stampe, in cinquanta esemplari fuori commercio, la versione integrale del poema L’Italia sepolta sotto la neve; l’editore risulta come “AER edizioni”, che non è altro che l’acronimo dei nomi del figlio Antonio, della moglie Elena e del suo.
Esce per la Pendragon il Catalogo editoriale della libreria antiquaria Palmaverde; come precisa l’editore in una sua nota introduttiva, l’intento è quello di «presentare un catalogo che illustri tutte le edizioni realizzate dalla libreria antiquaria Palmaverde di cui abbiamo trovato traccia, sia negli scaffali privati di Roberto Roversi e dei suoi familiari, sia in quelli della libreria stessa».
A cura di Ciro Vitiello, esce La devastazione di Montecalvo, edito da Oèdipus. A Montecalvo, il padre di Roversi aveva una casa, e lì la famiglia si trasferiva per alcuni periodi; andata distrutta con la guerra o, comunque, lasciata andare per quella, è un luogo sempre rimasto molto presente in Roversi. Nella scarna nota che precede il poemetto, riecheggia quanto aveva scritto nel libro Guardare ascoltare. Mescolare tutto ma non in modo confuso, in Come si scrive un romanzo, di se stesso giovinetto e del suo incontro con Tommaso Campanella.
La malattia che da tempo lo ha colpito e lo prova, soprattutto alle gambe, oramai lo costringe a non uscire più da casa.
2011
Esce la riedizione del romanzo Caccia all’uomo, l’editore è Pendragon.
L’editore Sigismundus ristampa L’Italia sepolta sotto la neve. Parte quarta con il titolo Trenta miserie d’Italia.
2012
Nel mese di marzo, muore l’amico Tonino Guerra.
La rivista elettronica “Istànti”, nei primi tre numeri, pubblica A colloquio con Roberto Roversi, tre parti di una lunga conversazione, registrata nell’ottobre dell’anno prima da Salvatore Jemma.
Il 14 settembre, nel pomeriggio, Roversi muore all’età di 89 anni. A causa del pericolante degrado in cui la Certosa è lasciata da tempo, un degrado più e più volte denunciato dallo stesso Roversi negli anni passati, la tumulazione viene ritardata, finché il 29 dello stesso mese, dopo che sono state approntate con alcuni lavori delle impalcature di sostegno, assieme ai familiari e a pochi amici, le ceneri vengono poste nella tomba di famiglia, accanto a quelle del figlio Antonio.
Il 28 ottobre, presso la libreria Zanichelli di Bologna, si presenta il suo ultimo libro, precedentemente da lui concordato con Pendragon, Libri e contro il tarlo inimico.
Il 14 dicembre, viene distribuito un foglio che raccoglie testi di Roversi scelti da un gruppo di amici; l’iniziativa è realizzata da Pendragon, in collaborazione con il Comune di Bologna.
2013
Il 28 gennaio, giorno in cui Roversi avrebbe compiuto 90 anni, entra in funzione un sito on line che vuole raccogliere tutta l’attività letteraria di Roversi, con l’intento di metterla gratuitamente a disposizione di ognuno che sia interessato; l’iniziativa è sempre di Pendragon.
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