Antonio Catalfamo, Poeti operai

Antonio Catalfamo, Poeti operai (antologia), Milano, «Il Calendario del Popolo», n. 730, anno 64°, maggio 2008, pp. 64, euro 5.

 

 

Ci hanno spinti fuori

dalle fabbriche

a centinaia di migliaia

in questi anni.

Ci siamo sentiti addosso

il deserto

in qualche

momento.

(Ferruccio Brugnaro)

 

Ora saranno contenti: la classe operaia, dice il nuovo potere, è scomparsa, l’operaio non c’è più (o perlomeno “arranca in qualche sperduta periferia ex comunista”). Lo dicono loro, almeno quelli che si ritiene sappiano le cose e abbiano, per il momento, in mano il destino del mondo, la sfera per gestire le vicende presenti, teorizzando le pratiche relative; in poche parole, la gestione effettiva, e ascoltando le loro sontuose cronache e gli ammonimenti delle loro virtuose scritture. La classe operaia, dicono, è scancellata ormai dal novero delle istituzioni sociali vigenti, scancellata dal novero delle indicazioni sistematiche protagoniste nelle vicende sociali dei nostri anni. Anche il denso plotone dei reduci da quel campo di battaglia di sinistra, magari con vistose ferite, si scuote come i rami di alberi accasciati sulle rive del fiume (dei fiumi). Si dovrebbe dunque, parlando, scrivendo, facendo, in qualsiasi modo o forma, riferimento, indicare verbalmente o graficamente il logo, ormai dato per “transeunte”, di classe operaia, decisamente “obsoleto”. Il termine irrita o fa sorridere con diniego1. Si dovrebbe perciò, per il doveroso inevitabile aggiornamento linguistico e culturale, parlare scrivere sottoscrivere soltanto di “tute blu”. Braghe e giubbe di un colore che vuol riportare, o vuole rimandare, a celestiali invasamenti sociali, a un grado di applicabilità e gestione approvabili da chi gestisce le cose seduto sui gradini più alti del mondo (non ricordando che così intruppati e vestiti gli uomini del lavoro potrebbero di nuovo ricominciare a contarsi, come accadde, lo ricordo sempre, nell’antica Roma quando il senato legiferò che tutti gli schiavi dovevano indossare un camice bianco e gli schiavi finalmente cominciarono a contarsi). (“Quando entro qui nel reparto / io non ho altra speranza / che quella d’uscirne vivo”, Francesco Currà). (“Mia turbinante ed ostinata rabbia / sfogati, mordi, scalcia, spadroneggia!”, Francesco Currà). Il mondo oggi è irriso e sopraffatto. E le tute blu dovrebbero esclusivamente seguire il destino di questo o quel capitale, soggiacendo ad ogni improvviso destino, come tanti rigagnoli che defluiscono verso il mare dell’oro sul quale defluiscono a motori spiegati i grandi scafi degli uomini fortunati in denaro e in amore; quindi, ripeto, in potere. Insomma, le tute blu dovrebbero soggiacere come una sorta di leoni addomesticati, anzi ammaestrati. Un cerchio di fuoco, salta qui salta là, oplà! una manata sulla testa del leone accosciato da parte del domatore e via per il prossimo spettacolo o affanno. Vederli così buoni e quieti: “All’ora del pranzo / seduti sul marciapiede / il piattino sulle ginocchia / mangiamo in silenzio” (Donato Rossi).

Parto dalla convinzione che tutto il soprascritto sia ancora una delle tante, progressivamente caute e feroci, manipolazioni che nel corso degli ultimi decenni soprattutto, hanno compresso poi hanno depresso le poderose drammatiche propaggini dei lavoratori di mezzo mondo buttati, prima, in due guerre acerrime e bestiali, mondiali. Dallo sfascio mortifero sortirono, sotto naturali e affannati rigurgiti di speranza in generale e di volontà di cambiamenti duraturi, propositi di lealtà e misura nelle sopraffazioni, propositi esibiti di fratellanza (finalmente riconosciuta e ricercata), volontà di bandire la fame di potere di Stati e così via. Una ennesima illusione annegata in un mare di parole, scherzo vile e infame. Oggi, siamo così come ci vediamo; come non vorremmo essere ma siamo; come lacrimiamo di essere, talvolta con rinnovata disperazione. E allora: “Mia turbinante od ostinata rabbia, / sfogati, mordi, scalcia, spadroneggia!” (Francesco Currà).

Allora possiamo, noi dico, ripetere che questa parte del mondo in cui viviamo, spudoratamente avida nel gestirlo a proprio vantaggio, butta le ossa con qualche filamento non di carne ma di nervo ai cani. I cani operai, abbelliti magari con nastri colorati strizzati al collo. Ufficialmente, viste da queste angolazioni, le sopradescritte e ribadite indicazioni sembrerebbero, e per loro sono, polverose esagerazioni; il mondo in cui ci è dato di transitare essendo, nonostante le sue innegabili spuntature, il migliore dei luoghi possibili. O potrebbero ancora sembrare le elucubrazioni di cittadini poco dinamici e solo insofferenti, non certo protesi al futuro. Eppure la verità è che i portatori delle desolanti insoddisfazioni, anche solo per la semplice sopravvivenza, non potranno mai essere conculcati nella loro ricerca e nel loro moto verso un destino più giusto, più duraturo e più vincolante; sia pure, ripeto, dentro al presente sfascio dei valori, dei sentimenti autentici, delle speranze e degli impegni, dentro allo spettacolo di una società che invita a soddisfare ogni brama, ferocemente aggredendo il destino generale e rilasciando scempio sfrenato e troppo spesso dolore.

Questa forse troppo lunga introduzione mi concede di entrare più direttamente (muovendo dalle pagine di questo fascicolo molto utile, curato con acume ed eccellente partecipazione da Catalfamo) nel merito di una realtà sociale tuttavia ancora drammaticamente presente, con la riapparizione, per nostra fortuna, di donne e uomini reali, promotori di istanze sociali rabbrividenti nella loro urgenza; donne e uomini della fabbrica, dalla fabbrica (“Tutto è pronto, / guardate i fonditori, / le staffe, i crogiuoli, / la fabbrica segue ogni movimento, / trattenendo il respiro”); ogni giorno tempestati dall’incertezza subdola e improvvisa di un capitalismo ormai senza più timori se non i rigidi vincoli finanziari; ondivago e migratorio. Così, con questo sdegno dei sentimenti e delle idee che ci rodono dentro contrastando il presente, conducono a leggere il fascicolo come una vera miniera di indicazioni e scelta di testi poetici composti dentro alla tavola imbandita della buona poesia, dalla quale fino ad ora sono stati sempre allontanati con severità arrogante. (Eguale servizio, o prepotenza, è riservata alla poesia delle donne, anch’esse ritenute animali a parte). Il mondo della fabbrica è spalancato nell’unico modo diretto e confacente, dagli operai e per gli operai (intesi come uomini, come donne che lavorano nelle fabbriche, luoghi lucidi di martirio e di passione). Altrimenti, per questo specifico, con doverosi e rispettosi inchini, si fa sempre riferimento esclusivo a Ottieri, a Volponi, a Pasolini (a Mastronardo?) anche se in realtà la fabbrica l’hanno odorata ma mai frequentata. L’operaio, l’operaia, in fabbrica tante volte ci muore. “Sirena suona, suona / riempi il cielo / riempi le nostre mani. / Fumo sali, sali / metti ali di rondini / metti ali di colombe / in alto più in alto ancora / intorno al mondo porta / l’alba di questo giorno d’acciaio” (Franco Cigarini). Esempio: chi ricorda più Taddei? Chi ha sentore delle poesie di guerra scritte con il sangue dei soldati? Aprire alla poesia i nuovi (o i vecchi) sentieri di guerra e di pace tremendamente scombussolata, riascoltare la voce della tremenda tristezza popolare, sarebbe un contributo fondamentale alla ricerca e al ritrovamento di nuovi o di antichi valori rottamati dal tempo. La verità è lì che incombe riordinando problemi e memorie: “Sono tornati gli operai. / Sono tornati / i miei compagni. / Sono tornati / come un tempo / fieri e decisi” (Ferruccio Brugnaro). Per intendere e volere, capire al meglio, il fascicolo “vibratile” redatto da Catalfamo è strumento determinante.

 

 

Note

 

Anche se proprio in questi giorni, per un esempio, dopo la batosta elettorale della “sinistra arcobaleno” (intitolazione piuttosto da sala corse o da bingo che per un raggruppamento politico militante), e a conclusione del congresso non esaltante di Rifondazione Comunista, il nuovo segretario cominciando forse a prendere atto che la cancellazione della figura reale dell’operaio era affrettata e pretestuosa, solo funzionante per la esorbitante isteria contemporanea, ha conclamato di volere ripartire, per la rigenerazione del partito, proprio dalla “classe operaia”. Così anche Bertinotti, nel lacrimevole saluto della sua vicenda dirigenziale, ricupera la grande motivazione: “Abbiamo fallito, ripartiamo dagli operai”. Per una riflessione non imburrata su questa o su queste problematiche, rimanderei all’intervista a Marco Revelli del 31 luglio 2008 su «Liberazione» e alle varie lucidissime presentazioni di Antonio Catalfamo nel fascicolo da lui curato.

 

 

 

«Campi immaginabili», n. 38/39, Rubbettino Editore, 2008.

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
  • Testata: Campi immaginabili
  • Editore: Rubbettino Editore
  • Anno di pubblicazione: n. 38/39, 2008
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