Parco Regionale. Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa
Ho da dire questo, per diretta competenza. E in quattro parole; non per liberarmi in fretta di un impegno, ma perché‚ ciò che ho da dire si può stringere bene in quattro parole. Così: il calanco grida di notte e io l’ho sentito gridare. L’ho visto anche di giorno, e per lunghi giorni. Di giorno sembra imbronciato, molto pensieroso. Lo assillano i pensieri, e sembra che li segua borbottando una qualche sua canzone. Ma di notte il calanco fa paura, dopo che il cielo si è chiuso o abbassato con il rumore di una serranda arrugginita e il grande lenzuolo copre le cose del mondo dove il calanco risiede. Anch’io ho avuto questa paura. Non lo scrivo tanto per scrivere, non lo dico tanto per dire; davanti al calanco sono stato seduto per mesi, nel corso di parecchi anni seguenti al tempo che ero citulo e la mia barba appena spuntava. Dove? Dov’ero? A Montecalvo, in cima alla punta del colle, dove adesso sussistono i ruderi di una vecchia costruzione, che era una villa fortilizio, tutta merlata all’araba, con muri spessi un metro, avuta da mio padre prima dell’ultima guerra e poi bombardata e distrutta nei primi mesi del ’45. Lì, o là sopra, ci passavo l’estate, in pieno sole (non c’era un albero), in pieno vento (quando soffiava il vento), in piena nebbia (quando arrivava improvvisa la nebbia, gonfiandosi con grandi colpi d’ali; e proprio sull’orlo dei precipitosi calanchi arruffati e distesi sotto i nostri piedi). Durante il giorno, in quella solitudine e in quel silenzio, non mi restava altro che visitarli, sfiorarli, provocarli un poco tentandoli con cautela. Sul bordo delle ferite, e anche dentro, i grandi cespi delle pallide cupe meravigliose e quasi sgomente ginestre, sembravano deposti sopra tombe di antichi re ormai dimenticati. Era bello allora sollevare gli occhi e guardare in alto il volo degli storni. Ecco dunque che do relazione di questo mio emozionante e travagliato (in ordine di sentimenti) rapporto con il calanco. Egli raccoglieva il sole e poi l’ombra del sole e poi l’ombra quieta e celeste del vespro e poi il cupo fragore della notte. Io ero lì vicino che l’osservavo, costante. Un piccolo prometeo non divagante, legato a quel suolo. Sempre in bilico su qualche piccolo precipizio, e con il timore che dovesse prima o poi aprirsi e precipitare franando. Non sapevo ancora che il calanco è, sulla terra, come la ruga profonda sulla fronte del vecchio marinaio; o del vecchio contadino. Segna la fatica della terra, il suo lungo errare prima del suo momentaneo assestamento. Essendo una ruga antica e profonda, può indicare anche una momentanea raggiunta saggezza? Non sapevo allora, e non so oggi, rispondere.
Centro Villa Ghigi (a cura di), Andare per parchi. Informazioni turistiche, suggestioni e curiosità sui parchi e le riserve dell’Emilia Romagna, opuscolo allegato a “la Repubblica”, 1992.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
- Testata: Opuscolo allegato a la Repubblica
- Anno di pubblicazione: 1992