Interventi

I problemi suscitati dalla lettura delle Descrizioni in atto (e, si potrebbe aggiungere, del romanzo Registrazione di eventi, uscito l’anno scorso e passato per ora senza riscuotere – almeno pubblicamente – l’attenzione dovuta) colpiscono in primo luogo per la loro chiarezza, per la loro mancanza di ambiguità. Sul piano dei contenuti, si tratta di identificare, rispetto al precedente lavoro di Roversi, il suo nuovo modo di reagire a una situazione di fondo che, pur non essendo nuova, si presenta però con delle continue varianti e che oggi – negli anni delle Descrizioni in atto – costituisce dunque una realtà formale sensibilmente diversa da quella che poté apparire, nel corso degli anni cinquanta, al poeta della Raccolta del fieno: vogliamo dire la mercificazione e il disconoscimento dell’umano nelle strutture e nella vita della società capitalistica. Sul piano espressivo, il problema è quello di vedere se e fino a che punto il mutamento del paesaggio esterno e quello dell’angolazione psicologica e morale trovino, in queste poesie, un equivalente linguistico, e quale sia questo equivalente. Sono, come si vede, quesiti essenziali e elementari, senza sfumature; questa nettezza è spiegata e autorizzata, a nostro parere, dalla strettissima coerenza della vicenda di Roversi. Il discorso di Roversi è sempre stato, ed è tuttora, un discorso tutto frontale, diretto, privo di margini e di risvolti; un discorso utilizzabile solo nella sua spigolosa integrità. Niente di strano, dunque, se anche le sue modificazioni e il suo sviluppo avvengono secondo forme e propositi univoci, lineari.

Riguardo al primo punto, ci sembra che il dato principale sia la rinuncia di Roversi, in questa nuova fase, a formulare come in passato un’immagine positiva destinata a rendere più fonda e ripugnante, per contrasto, l’altra immagine, quella appunto della crisi, della perdita dell’umano. Nella Raccolta del fieno, nei poemetti di Dopo Campoformio il gioco fra le due immagini coincideva in sostanza, secondo la dura elementarità della poesia di Roversi, con la contrapposizione campagna-città, sentita la prima come la sede di un’ancora possibile, anche se minacciata, autenticità di gesti e di sentimenti, la seconda come il luogo di massima concentrazione della realtà e dei simboli della deformazione capitalistica. Ai contadini gravi e veri, scolpiti, aureolati da una luce eroica facevano riscontro quasi simmetrico le lupe dorate, i monaci sapienti e perversi, i satiri e i mercanti che affollano la “gobba, maliziosa città” e che il poeta vedeva e descriveva, allora, come dal di fuori, da un osservatorio posto a una quota più alta o comunque diversa.

Questo sentirsi al di fuori rispetto alla metà negativa della propria materia era, accanto alla ricordata formulazione di un’immagine positiva, l’altro dei modi in cui si esprimeva, nella poesia di Roversi sino a Dopo Campoformio, la presenza marginale della speranza, nel doppio aspetto di fiducia nella concreta possibilità del riscatto politico e di ipotizzata attitudine di un destinatario-tipo a ricevere il “messaggio”: presenza che situava il pessimismo di Roversi nella temperie, nonostante tutto, di un ottimismo di tipo umanistico-razionale. Nelle Descrizioni in atto, insieme alla scomparsa del polo positivo del rapporto dobbiamo registrare appunto l’attenuarsi, sin quasi all’annullamento, di tale presenza, sia nella sua parte esplicita che nella sua parte implicita; “quasi” vuol alludere qui, ovviamente, alla ineliminabilità del sia pur minimo tasso di speranza inerente al fatto stesso della comunicazione poetica, alla volontà di rivolgersi a qualcun altro attraverso la poesia (volontà che, nel caso dei testi di Roversi riprodotti in queste pagine, è esemplificata tra l’altro – in modo persino incongruo al loro tono e alla loro destinazione – dal titolo vistosamente fenomenologico). Roversi è, per così dire, precipitato dal suo osservatorio; ha perduto – insieme al contrasto-rifugio di un’altra realtà in essere, una realtà autentica e a tutto tondo – anche la quota neutra dalla quale poteva scrutare e condannare, con strazio ma con un evidente distacco figurativo, la realtà “bestiale” della crisi.

È appena il caso di ripetere qui quanto abbiamo premesso, e cioè che le modificazioni intervenute nell’atteggiamento di Roversi verso la propria materia, verso la situazione cui egli si sente chiamato a reagire, presuppongono nell’atteggiamento stesso una continuità e una coerenza molto alte, senza le quali qualsiasi modificazione risulterebbe d’altronde inavvertibile o insignificante. Identica, in particolare, è rimasta la vocazione oppositrice di Roversi, con quanto essa sottintende di politicamente teleologico: nelle Descrizioni in atto, la poesia continua ad apparirci come il luogo della ragione attiva e ad esser brandita come un’arma, in senso quasi fisicamente letterale. Il declino della speranza, la riduzione tendenzialmente radicale dell’ottimismo umanistico, che abbiamo ricordato poco fa come le principali caratteristiche differenziatrici di questa nuova fase della poesia di Roversi, incidono pur sempre nell’ambito di quella vocazione e valgono a condizionarne il modo d’essere, a variarne il campo d’applicazione, non certo a cancellarla o a capovolgerne il segno.

Nelle Descrizioni in atto Roversi si situa, dunque, in modo totale e apparentemente irrevocabile, all’interno della situazione negativa che vuol colpire: i messaggi che continua ad inviarci non sono più messaggi a proposito dell’inferno ma ci giungono, ormai, senza mediazioni o intervalli, dal cuore stesso dell’inferno.

Cercheremo ora di indicare brevemente, come ci eravamo proposti all’inizio, quale rispondenza trovi la nuova situazione – sin qui descritta o presupposta in termini afferenti la volontà e le circostanze storiche e psicologiche del discorso – sul piano specifico degli strumenti e dei risultati espressivi.

Nei poemetti di Dopo Campoformio (che riteniamo di poter adottare come i campioni più rappresentativi dell’intera produzione di Roversi sino all’inizio del ’62, anno di pubblicazione del volume omonimo), la struttura formale era affidata a campiture piuttosto larghe ed effuse, elaborate con un dosato impasto di evocazioni visuali e suggestioni lessicali e chiusa con rigore “quasi” ottocentesco in una allure metrica a tratti un poco impettita, oratoria, dove non era difficile scorgere anche una scelta di tipo polemico, la scelta antinovecentesca presente, strettamente intrecciata ad altre ragioni, nel lavoro di “Officina”. La tensione tra i due poli, tra le due immagini opposte – positiva e negativa – che costituivano, come s’è detto, l’ipotesi di fondo del Roversi di Dopo Campoformio, era rispecchiata fedelmente sul piano espressivo dagli scarti compiuti di continuo dal discorso fra una serie di immagini ipertese e un’altra di immagini più lasse, elegiache o idilliche, e dal ruotare di due tipi assai diversi di aggettivazione; la prima, rotonda e serena, usata ad esprimere il rapporto del poeta con la natura e la gente che lo commuovono e lo mostrano come potrebbe essere e non vuole e non può, ormai, consentire ad essere; la seconda dura, irta, plumbea, pronta ad affacciarsi di schianto ogni volta che si presenta, quasi evocata a castigare l’abbandono lirico, la nozione del “male”.

Nelle Descrizioni in atto, in corrispondenza con la caduta del polo positivo della tensione tra vita-vita e vita-morte, tra umano e disumano, e con lo sprofondamento della voce parlante nell’oscurità interna della materia investita, assistiamo, nell’ambito figurativo-sintattico, da un lato a una sorta di omogeneizzazione, dall’altro a un’accelerazione estrema dei procedimenti espressivi. I nessi, prima perlopiù scoperti e visibili, sono ora cancellati dal piano del discorso esplicito e corrono sottopelle, bruscamente occultati o traslati. Nello stesso tempo, ha guadagnato spazio e peso il discorso diretto di tipo sentenzioso, attraverso il quale quelli che in precedenza si presentavano come giudizi relativamente interni e circostanziati acquistano la grevità astratta e insieme corporea, appunto, delle sentenze. Il lessico suona più carico e tendenzioso e volge a una sorta di uniformità, a una violenta e funzionale monotonia. Decisamente più energica, rispetto a un ipotetico asse di raffigurazione “al naturale”, risulta la deformazione espressionistica delle figure prelevate dalla realtà, mentre l’ordine generale, l’architettura compositiva tendono a sbloccarsi, ad allargarsi a spirale, attraverso appropriazioni successive che tradiscono, al limite, l’aspirazione alla globalità.

Ancora più appariscente e altrettanto significativo ci sembra il mutamento intervenuto nelle strutture metriche. Si tratta di un discorso tuttora tenuto, prevalentemente, nell’ambito tonale, ma con una varietà e libertà di soluzioni in cui si può scorgere, da un lato la volontà di raggiungere un’aderenza istantanea e capillare alle diverse frequenze dei contenuti, dall’altro il bisogno di dar vita anche per tale verso a un equivalente formale dell’immagine sostanziale negativa continuamente presente nel fondo. Più che realizzare o prefigurare una “nuova” metrica, Roversi nelle Descrizioni in atto sembra in effetti voler sottoporre strutture metriche già sperimentate in passato a delle prove di carico particolarmente severe, che le sollecitano e le deformano senza oltrepassare tuttavia, sino ad ora, il limite di rottura.

Appare tutt’altro che sorprendente che nel mettere a punto i suoi nuovi strumenti espressivi Roversi si sia trovato ad accettate alcune coincidenze di carattere formale con il lavoro delle cosiddette neoavanguardie: coincidenze riscontrabili soprattutto negli incastri fra vari piani linguistici e nella concitazione con la quale blocchi apparentemente autonomi di immagini vengono spinti a ruotare insieme e a intersecarsi, con effetti di sapore fra surrealista ed espressionista; si pensa, per un possibile anche se vago riferimento, al Garcia Lorca delle poesie newyorkesi. Ma si vedano anche, in altro senso, certe aperture di tono poundiano, come l’inizio della Terza descrizione (“Non basta (o non serve ancora) aprire Lenin a p. 225 e leggere…”) o l’intera tessitura della Nona descrizione o lo scatto nella quinta parte dell’Undicesima descrizione (“Ti dico guardati di illuderti di strafare…”). Lontani come siamo dal poter presumere negli interessi di Roversi, nel suo duro mirare alla sostanza, al cieco oscuro nocciolo della questione, propensioni anche passeggere al piacere di un astratto sperimentalismo, crediamo di poter giudicare tali coincidenze come sintomi o indizi di un clima espressivo condensatosi in questi anni su un’area molto più vasta di quella di pertinenza del formalismo avanguardistico, clima espressivo che è tanto sbagliato voler ignorare, quanto ostinarsi a limitarlo a una schematica funzione provocatoria.

Non ci sembra superfluo, infine, ricordare come l’ultima vicenda di Roversi presenti notevoli analogie con quella degli altri poeti che hanno formato la storia di “Officina”. Tutti, in un certo senso, mostrano di essersi mossi, per diverse vie, dalle posizioni assunte in quel periodo, e di averlo fatto sotto l’urgenza di mantenere vivo e per quanto possibile attivo il loro diretto rapporto con le condizioni politiche e civili della realtà, essendo proprio questo del rapporto con la realtà il senso più resistente del loro lavoro, d’allora e di adesso. Anche e soprattutto per Roversi, il mantenersi all’altezza della situazione è la ragione prima d’ogni mutamento; il significato d’ogni sua innovazione va cercato non altrove che in questo continuo impegno d’uomo alle prese con i fatti del suo tempo e risoluto a non lasciarsi in alcun modo travolgere, anche se ne sarà, ma coscientemente, volta a volta condizionato. Proprio in questo senso ci sembra che debba essere ricevuto, oggi, il “messaggio” delle Descrizioni in atto, in cui la forma stessa della poesia è il disegno del bene mancante, lo stampo del male presente è l’unica figura data al bene assente.

 

 

 

Paragone – Letteratura, anno XVI, n. 182/2, aprile 1965.

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Giorgio Cesarano, Giovanni Raboni
  • Tipologia di testo: saggio
  • Testata: Paragone – Letteratura
  • Editore: Arnoldo Mondadori Editore
  • Anno di pubblicazione: Paragone – Letteratura, anno XVI, n. 182/2, aprile 1965
Letto 3610 volte Ultima modifica il Martedì, 30 Aprile 2013 13:23