Un nonno di nome Umberto
Un paese, anche un paese che è l’ombra di Atene antica, può essere grande come il mondo o piccolo come una formica.
Può avere i soliti giorni grigi, le solite notti gonfie di un sonno senza alcuna avventura; oppure può partecipare come in volo libero, ogni ora, in improvvise saette di vita; in abbandoni precipitosi e magnifici alla vita.
In altre parole, un paese come Pieve (dove non pascolano i bisonti) può vivere cento vite (e cento vite diverse) oppure sopravvivere a una solita vita. Implacabile come la vita.
E per vivere, lo sappiamo, non è necessario ogni ora fare cose di grande fantasia o addirittura sublimi; basta avere e mantenere la voglia, la volontà di inventarsi le trame delle proprie giornate, componendole con le mani, con gli occhi; strizzando le labbra come quando si rifila un legno; non aspettando che cali una sera con un po’ di nebbia per serrare le persiane, sbarrare la porta, rinchiudersi in casa; ma liberandosi dentro al mistero della notte, scendendo in strada, perché una voglia non ancora spenta di partecipare conoscere taroccare spinge e sprona.
Insomma, fare nonostante tutto, di giornate che dovrebbero risultare e svolgersi molto comuni, avventure della fantasia, della speranza, della curiosità attiva, dei sentimenti mai quieti, del buon operare – almeno nel proposito.
Anche in un momento, in generale così disamorato di tutto tranne che del denaro, come il presente.
Ma che vive dentro alla fatica della vita lo sa bene che non bisogna (non bisognerebbe mai) lasciarsi sgomentare dai racconti di favole ossessive. E mai impedirsi o lasciarsi impedire di entrare nella nebbia, in mezzo alla nebbia, quando la nebbia viene.
C’era una volta un nonno…
Riprendo la storia là dove l’avevo lasciata mesi fa, prima dell’inverno; e mi affido di nuovo al lettore.
La prima storia lo raccontava e lo seguiva mentre assisteva, a Pieve, a un partita di calcio sotto la neve rossa; e si copriva di neve come una rosa. Di neve, di nebbia.
La neve, le grandi nevicate.
La nebbia, le snebbiate che piacevano tanto al grande Salimbene, per cui mi stravolgo.
L’ultima nevicata pochi la ricordano, perché in questo buco esemplare di pianura non nevica più. La neve, col suo odore simile a quello degli uccelli stanziali, che hanno paura della tempesta, è emigrata in Sicilia.
Anche la nebbia è diventata solo un lenzuolo grigio, forato dai fanali gialli delle auto impaurite.
Nessuno canta in mezzo alla nebbia, al riparo della nebbia; nessuno canta e fischia nelle strade. Le voci si rintanano dietro i vetri; delle case, dei negozi, delle auto…
Ma c’è questo nonno, seduto davanti alla porta, sotto il porticato basso, vicino a una colonna; ascolta la notte che viene, la guarda, riscontra i suoi occhi profondi.
Egli guarda lontano, non porta gli occhiali.
Ascolta anche, il suo cuore è intrepido, il silenzio d’autunno e, nella memoria, rivede quel fiato splendido di nebbia che è come l’ù lionza d’antan, l’uva lionza di una volta, scomparsa dall’orizzonte contadino.
Una nebbia da masticare adagio; da leccare adagio; appena dorata sotto lumi accesi – proprio come l’uva che non c’è più (Un chicco grosso, uno piccolo, uno grosso, uno minutissimo come la capocchia di uno spillo; gli acini saltellavano sotto i denti e finivano per lasciarsi schiacciare in una poltiglia che si succhiava per ore).
Il chicco piccolissimo si poteva strizzare fra pollice e indice, in un giuoco da ragazzi.
Un nonno è lì sulla porta.
Come un cavallo al pascolo fiuta l’odore della nebbia, fiuta l’odore della notte.
La nebbia padana non c’è più; ma in questo paese così civile e cauto, immerso nella foschia, o mescolato con la foschia; intabarrato come un vecchio signore da una sciarpa di lana grigia intorno al collo, tra i mezzi fari che distribuiscono manciate di luce quasi fosse sabbia; bene, in questo paese, se ci si vuole sentire vivi anche da vecchi, bisogna camminarci dentro, frugare con le scarpe il suo antico cuore, stringerlo fra i denti come un mezzo toscano dal sapore indicibile.
Camminarci come in un viaggio intorno alla propria stanza; lasciandosi andare ad ascoltare il suono dei passi, che sembrano anche leggeri; il respiro del cielo che non si vede e che sembra immerso in un mare d’onde; le voci che scendono sfumandosi dalle case; e, insieme, il deciso arrancare dell’ombra che ci segue e non si consuma mai; mai si disperde.
Questo muoversi, questo mettersi in viaggio per andare da qui a là, per cercare, per ascoltarsi vivere, per quietarsi almeno un momento nel tumulto degli anni che traboccano, quasi mai si può farlo in città ormai, se non in luoghi particolari del centro o discosti e marginali; che, in ogni caso, mettono paura.
Qua no, invece; qua è come affondare il viso in un cuscino morbido, in un panno d’antica data. È anche come mettersi in una canoa e avviarsi pagaiando sul fiume della vita, ancora lontani dalle turbinose cascate. La sera, nei paesi, può riuscire a stendere questo velo; magari per un’ora soltanto.
Sotto il portico, alla Pieve – potendo quasi sfiorare con un dito le colonne con le travi di legno, imperterrite anche se strinate dal vento, dalla pioggia, dalle ghiacciate invernali e dal sole della pianura – quell’uomo vecchio vecchio, che è nonno, prova una emozione giovane a risentire, ricordando, il colpo secco, da accetta contro un tronco, del giuoco del pallone col bracciale.
Il campo per le partite era, un tempo, al bordo del paese e proponeva uno spettacolo sportivo in cui non si gridava, non si inveiva ma si commentava sfiatando, quasi liberandosi da una forte emozione, con “bravo bravissimo”, “oh boia”, “ ma va’ là”, ad ogni battuta o ribattuta esemplare.
Questo nobile giuoco che veniva dai greci antichi è scomparso nel nulla e quasi mai ricordato. Ma era magnifico, per uomini ruvidi, dalla muscolatura possente, agilissimi come pantere all’inseguimento. Un giuoco del popolo, che al popolo è stato rubato. Resiste solo nelle Langhe, ad Alba.
Il nonno cammina. Ha un bozzo rilevato in mezzo al cranio senza capelli. Ha un bastane solido, tagliato a colpi d’accetta da un ramo vecchio di cent’anni. Picchiando a terra, la punta placcata fa piccole scintille.
Il fiato del vecchio fuma ma i suoi passi sono incredibilmente leggeri.
Attraversa una strada, arriva alla porta d’Asia, illuminata dentro come in un’opera di Donizetti. Sente l’odore dell’erba, dei campi, delle foglie; mentre da un campanello, bianco di luce sopra i tetti, arriva il suono registrato di una campana.
Il nonno intanto, con il suo passo di ottant’anni, ritornato dentro al paese, ha di fronte la facciata di una casa con le finestre chiuse, forse disabitata. A sinistra, l’androne basso con il cancello di ferro, chiuso. Un lampo e il vecchio uomo ricorda voci bambine, le filastrocche nel giardino, in circolo, toccandosi i bottoni: Om, Mez’om, Furb, Leder, Galantòm; oppure, inteneriti dall’odore di polvere delle indicibili sere padane: “Lozla lozla, vin da bas…”. Tutto rivive e scuote mosso dal vento di sentimenti.
Le case, le facciate delle case, le finestre, i coppi, i campanelli sembrano aspettare proprio questi incontri.
Un uomo contro le pietre, un uomo contro il tempo, per tornare a capire le pietre e per non rifiutarsi alla vita che è di continuo alimentata da questa straordinaria forza della memoria. Le cose sembrano restare ferme e intatte, solo per aspettarci.
Il vecchio è possibile che decida di arrivare a quel cortile, a quella osteria, a quelle sedie, a quel tavolo, a quel goccio di vino, di birra fresca, di limonata. Sorride ricordando le bordate di urla dei giovani centesi da argine ad argine del Reno: “Pivarùa, pein d’fasùa”. Pievesi pieni di fagioli.
Adesso il mondo è diverso, stravolto. Meglio sedere e ascoltare le voci della terra, in questa sera di ombre e di luci precise e straordinarie da invitare a non dormire ma a camminare anche per chi ha già vissuto la vita.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: racconti
- Testata: Notturni, di Tiziana Bertacci
- Editore: Tipografia compositori
- Anno di pubblicazione: 1995