Ich war ein blinder Knabe, lieber Bellarmin!

Ich war ein blinder Knabe, lieber Bellarmin!*

Il mio commento è breve. Egli non voleva, anzi non sapeva morire ma voleva e sapeva perdersi, disperdersi; per poi drammaticamente ricercarsi. Entrare come nebbia nella nebbia, come fumo nel fumo, come il sole nel sole, come un’ombra nell’ombra – ed essere sempre colui che ancora non è nato ma aspetta di nascere, volendo prima ascoltare il canto (o il pianto) della vita che si avvicina. Senza temere la vita, egli cercava di frugare dentro al cuore del mondo alla ricerca di un ordine d’armonia perduto – o dimenticato. Frugando via via dimenticava le voci e conosceva il silenzio, sempre più profondo, sempre più vero, sempre più essenziale. E necessario. Così ha perso per strada la ragione ma non la musica delle parole, perché la sua passione non contenuta tendeva sempre a bere il fuoco. Finché il fuoco tutto intero l’ha divorato il sette giugno 1843.

 

Hoelderlin vecchio si preannuncia con l’odore forte del toscano. La vecchiaia di Hoelderlin infatti è quella che è, ma è quella che ci interessa.

Egli così si preannuncia con il fumo, arriva, siede, aspetta che si apra lo spettacolo del mondo. Del suo mondo.

Guarda il mondo. Aspetta il mondo. Perché egli è il re, si sente il re. Egli induce se stesso, e gli altri, a percepire alte fantasie che non trovano riscontro nel mondo e che riescono anche a ferire. Sono suoni di parole di mistero che si svolgono lente come le nebbie mattutine su un lago di deliziosi o tenebrosi incantamenti. Egli qua siede qua parla con il mondo. Il suo toscano adesso è spento fra le labbra. Odora forte. Ma è spento, umido di saliva.

“Non posso esprimere la gratitudine che io sento, amore mio, perché la primavera, una primavera che sa di cielo, può dare anche a me un poco di gioia, a me così consumato dagli anni, oramai… e ogni giorno cammino per nuovi sentieri ma nella luce non ti raggiungo mai, anzi ti perdo. Ti insegno, ti seguo, ti perdo”. Hoelderlin siede. Può un poeta vecchio sedere davanti al giudice che presiede il mondo? Ed essere giudicato? Hoelderlin è seduto, tace ascolta, è composto, è in attesa. A una domanda (portata dal frusciare della sera, fra gli alberi o portata da un sogno) risponde: “È nostro destino non trovare requie in nessun posto, mai” e aggiunge: “Come acqua che corre e schizza da una pietra a una pietra”.

Silenzio.

Gli chiedono: “Ha parlato? Non vuole continuare a parlare?”.

Risponde: “Es gibt zwei Ideale unseres Daseins, due sono gli ideali della nostra esistenza: partecipare e godere della massima semplicità e dopo la grande fatica di cercare e apprendere, partecipare e godere della maggior conoscenza, interiore chiarezza, lucido delirio per il futuro che viene”.

Il cielo si irradia di un sole pazzo e violento, che scaraventa carbone acceso fra i rami e le foglie degli alberi che restano annichiliti. Il mondo brucia, o sembra bruciare.

Il poeta è proteso alla finestra, ha acceso poi ha spento ancora il toscano, sibila lame di parole, urla o mormora appena: “Ich will nun wieder ich will in mein Jonien zurück voglio ritornare alla Jonia che è mia, che è mia. Inutilmente sono partito dalla mia patria per andare in cerca della verità”.

Si presenta Waiblinger* e dice nel ricordo: “Cercava la verità? La verità? Egli solitamente pensava a voce alta”. Waiblinger siede sul divano, vicino alla finestra, alle spalle di Scardanelli. Continua: “Quando riusciva a progredire nella determinazione di un concetto o di un’idea, era colto da vertigini”.

Scardanelli: “Vertigini, Waiblinger? Cosa ne sa lei, buon amico, di queste ali di pipistrelli che mi sfiorano gli occhi, le orecchie, scendono sulle punte delle dita, mi contano i giorni e mi hanno tolto la memoria?”.

Waiblinger: “Fragilità mentale, piuttosto che follia. Non riusciva a fermarsi sulle cose”.

Scardanelli: “Ero io, oppure le cose in movimento, come le pale di questo mulino, non consentivano le fermate, perché fuggivano sempre via? Come il fumo di questo toscano. Oui, Vostra Maestà, lei parla bene… Ascoltatemi, un momento. L’ode tragica comincia nel fuoco più alto… Lo spirito puro, la pura interiorità ha varcato i suoi limiti”. Pausa, accende il toscano. Il sole basso è un fuoco, gli uccelli qua e là volano frenetici. Mentre fuma, Hoelderlin/Scardanelli ripete a voce bassa: “Le ceneri dei barbari… fuori dalla terra. Empio osarono dirti? O sacro uomo, oh, ti legarono, oppressero il tuo cuore… L’oscurità della Grecia è più luminosa del fuoco acceso dalle vipere vaticane contro il corpo dei santi martirizzati. Empio, osarono dirti? Io brucio con te, con lui, con loro… Waiblinger, Waiblinger dove siete? È già sera?”.

Waiblinger: “Sono alle vostre spalle, vi vedo, vi ascolto, vedo calare la notte fonda sulle vostre spalle”.

Hoelderlin/Scardanelli: “Sapete? La vera saggezza è nella follia piena. Così va bene. I dolci giuochi della vita ti lasciano senza amore. Ma se è intensamente addestrato, l’intelletto conserva la sua forza anche nella dispersione. La dispersione è timore della verità, per l’amore che le dobbiamo e che le portiamo. È il mare senza onde, dove il pesce guizzante sente la siringa dei tritoni… Io amo la filosofa ma la poesia è il mio pane. Tace l’oceano quando è il giorno che anche gli dei muoiono. Allora è possibile, forse è necessario, precipitare nel gorgo di parole senza senso. Senza senso per i mortali, perché gli dei prima di morire hanno inteso e hanno divorato tutte le parole. Così il cielo resta vuoto. E anch’io, Waiblinger mi ascoltate?, anch’io posso tacere un poco. Posso ascoltare il canto della formica sulla punta delle mie dita. Waiblinger non dite nulla? Non ascoltate neppure? Siete silenzioso nel silenzio?”.

Il sole scomparso, il mondo scomparso, il cielo resta nero. Si ode, lontano, la voce di Waiblinger:“Sono qua, mio re, non troppo lontano da voi. Posso ascoltarvi, non posso più parlare. O forse non so più parlare”.

Hoelderlin, stringendo il toscano fra i denti e accingendosi a chiudere i vetri della finestra: “Lei lo dice, lei lo afferma, non me ne faccio nulla. Sì, Maestà. Ma anch’io sono maestro di silenzio. O principe della parola. Parola spenta. Come questo buon toscano, spento, bagnato dalla mia saliva. E questa la mia vita, in una conclusione non retorica. Arriverà la fine con il rumore del fiume adirato. Ma solo la Grecia antica ha dato senso alle cose”.

 

 

Principali edizioni tedesche

Sämtliche Werke, a cura di E. Beißner e A. Beck, Kohlhammer, Stuttgart 1943/1985 (cosiddetta “Große Stuttgarter Ausgabe”).

Sämtliche Werke, a cura di D.E. Sattler e W. Groddeck, Luchterhand, Darmstadt 1979 (cosiddetta “Kritische Textausgabe”)

 

Principali edizioni italiane

Inni e frammenti, trad. L. Trovino, Vallecchi, Firenze 1955.

Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977.

Alcune poesie di Friedrich Hoelderlin tradotte da Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1982 (già Parenti, Firenze 1941 e Firenze Cya 1947).

Poesie, traduzione e saggio introduttivo di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1958/1963.

Friedrich Hoelderlin, Inni Odi Elegie, introduzione e traduzione di Giorgio Lupi, Fogola, Torino 1981.

La morte di Empedocle, trad. C. Lievi e I. Perini Bianchi, Einaudi, Torino 1990.

Iperione, trad. G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991.

Poesie della torre, a cura di G. Celati, G. Messori, M. Schneider, Feltrinelli, Milano 1993.

 

 

Nato nel marzo dell’anno 1770 nella città tedesca di Lauffen sul fiume Neckar, Friedrich Hoelderlin, rimasto senza padre giovanissimo, studiò in vari seminari e poi a Tubinga, all’università, nel quinquennio 1788/1793. A Tubinga ebbe compagni Schelling e Hegel. A Jena, dove cercò di ottenere una cattedra universitaria, frequentò Schelling e Fichte (era l’anno 1795). Passato a Francoforte, per tre anni, fino al 1798, visse in casa Gontard come istitutore dei ragazzi e preso in allucinante progressione da una passione per la madre, Susette Gontard, che lo amò capendolo appieno per il suo assoluto ideale di greca armonia della vita, dei sentimenti, delle cose. Costretto ad abbandonare la casa, durante vari anni e varie peregrinazioni faticose, scalmanate, dolorose, mantenne con Susette/Diotima un intimo rapporto ideale, straordinariamente vivificato e alimentato dalla poesia. Lei, appunto, con il nome di Diotima. Ma Susette muore presto, consumata e lontana, e Hoelderlin cede poco per volta a una lunghissima pazzia indolore, che lui trascina per trentasette anni ospitato dal falegname Zimmer, in una casa vicino al fiume. Lì si spegnerà, come è spento un fuoco da una pioggia d’estate.

Ma tanto tempo prima aveva scritto: “Si staccano dal cuore e tornano al cuore le vene, e tutto è un’unica eterna ardente vita”.

 

 

 

*Ero un fanciullo cieco, caro Bellarmin!, Hyperion, 1797/1799.

 

 

EnnErre, n. 1, II, 1994 (poi in Il timone 2, 2008).

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: saggi critici
  • Testata: EnnErre (poi in Il timone 2, 2008)
  • Anno di pubblicazione: n. 1, II, 1994
Letto 4238 volte Ultima modifica il Martedì, 30 Aprile 2013 13:18
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