Piero Jahier: uno che “portava” la vita
«Siamo quello che siamo»
(da Contromemorie vociane)
Questa nota, breve, non è un compianto o una commemorazione, né tanto meno una declamazione sulla bara, ora che Jahier è morto; vuole solo riproporre, ribadendo alcune affermazioni non peregrine, l’opera e la figura di un uomo esemplare; soprattutto perché, essendo morto un uomo di coraggio, indifferente e severo, e un intellettuale non riducibile alla norma; poiché è morto uno scrittore, un operatore culturale ecc. che anteponeva con decisione la sostanza delle cose a ogni frivola apparenza, il commento funebre (il commiato funebre) sui grandi fogli d’informazione è stato sbrigato ancora una volta con burocratica freddezza e con una secchezza annoiata: la piccola fotografia d’archivio che lo ricorda in una maturità ancora piena, il riferimento d’obbligo ha Con me e con gli Alpini (chi non ha letto la storia dell’alpino Somacal Luigi nella propria antologia scolastica?), e infine il riconoscimento di «serio moralista di grande impegno» ma, ahimè, di successo mediocre; scrittore non eccelso ma «sincero e originale». Siccome analogo trattamento, da diverso prospettive e circostanze, fu riservato a Elio Vittorini, nell’equivoco pasticciaccio di riconoscimenti a mezza bocca o a fiato mozzo, di piccole ripulsine e sussulti, di frecciatine, omissioni ecc., allora è giusto che prendiamo noi la penna per ricordare i nostri morti, per accompagnarli e celebrarli con l’umile rispetto che si deve ai maestri. Liberandoli dalla canizza e della rabbia di questa.
È vero che la fortuna di Jahier è stata come raccolta e immediatamente congelata nei limiti di una rispettosa indifferenza (o indifferente rispetto, comechessia), da parte della nostra cultura; perché l’uomo e l’opera – cioè l’uomo che si poneva con rigore come antagonista in tempi calamitosi e l’intellettuale che sceglieva l’essere al parere e si confinava a un lavoro minuto, paziente, tra il popolo che era il suo popolo; l’uno e l’altra, intendo, apparivano remoti o comunque lontani, in mezzo alle vicende di una cronaca tormentosa di fatti, episodi, avvenimenti grandiosi, tragici, orripilanti o comunque rumorosi. O, se non lontani, dentro come tanti; e dunque come comuni testimoni, documentatori appartati ma duri e resistenti, irraggiungibili dai tentacoli della vanità, dalle sirene mondane, dall’amor di potenza, dalla partecipazione al lucro («Meno che mai potevo dirti che quella situazione mi aveva portato a riflettere più a fondo sullo stato di necessità assoluta, di non libertà assoluta di masse di uomini comuni, creatori e conservatori della cosiddetta civiltà. E mi aveva deciso a finire, oscuro, tra loro, che mi amavano e mi avevano a volte sfamato, piuttosto che farmi complice delle loro ribadite catene»). Ma è altrettanto vero – e in questo a me pare stia raccolta, tutta intera e affascinante, la sua lezione «pubblica», di uomo armato di lettere, e non bellettristicamente di uomo di cultura o letterato tout-court – che l’impegno di Jahier nei riguardi dei fatti pubblici, della situazione politica, dell’insieme delle contraddizioni sociali, era di una sostanza assai diversa, e dunque più resistente e immediatamente più «utile» e moderno, dell’impegno esemplato dalla retorica tardo-romantica di parte della cultura europea degli anni cinquanta.
Questo (equivoco e dolce, forsennato e cauto, sempre al limite fra il deliquio e una lucidità sprezzante; astioso, impaziente, esorbitante, severo, ma bisognoso di continue verifiche a scadenza) proponeva al pubblico la figura dell’intellettuale come una piccola divinità caduta fra i mortali, in una dedizione ai lebbrosi e con un conseguente bisogno, quasi una necessità, del consenso e del plauso (applauso) per durare in questo lavoro infetto (che doveva almeno svolgersi in pubblico per consentire a un consesso più vasto, o più vasto possibile, di surrogare i mancati vantaggi che altre disposizioni e altri ingaggi avrebbero consentito). L’impegno di Jahier, e di quanti come lui (ma sono pochi) avevano inteso negli anni di questo nostro secolo tormentato che partecipare vuole dire dedicarsi (cioè sacrificarsi, cioè scegliere fino in fondo; un partire senza ritorno), non era soltanto un impegno politico (cioè di contrasto a una fazione) ma un preciso progetto di lavoro, una scelta definitiva, una necessità («debbo scavalcare la miseria per entrare in poesia», o altrove: «i migliori sono quelli che corrono a espiare»).
Ma rileggiamo a questo proposito la pagina, stupenda, in cui Jahier dà un ragguaglio della propria vita illuminando i dettagli di questo suo operare:
«Fu nell’adolescenza che sentii, con assoluta certezza, di non esser tanto chiamato ad agire, nella vita, quanto a esprimere. Ma con altrettanta certezza sentii che non avrei potuto esprimermi se non avessi avuto il coraggio di essere, anzitutto, nell’agire, un uomo comune che si guadagna il pane vendendo qualsiasi merce, all’infuori della poesia.
Chi è salito più in alto?
Perché io voglio scendere, quanto è salito.
«Povero e orfano di padre, la povertà mi aveva negato gli studi universitari. Ma ero terribilmente fiero della responsabilità della mia posizione di povero. Ritenevo che in una società savia, ogni uomo avrebbe dovuto iniziare la vita nella posizione di povero, per poter imparare ad essere giusto. Così, quantunque fossi deciso a lottare per migliorare la mia cultura e la mia condizione (da ferroviere, presi due lauree, studiando la notte) nessun miraggio di carriera o di notorietà poté avvelenare il concetto religioso della poesia che mi aveva comunicato il mio maestro di liceo, Fedele Romani.
«Essa era una testimonianza alla verità della propria anima, che doveva esser resa anche a costo della vita stessa; implicava il massimo di pericolosità nel cozzo inevitabile con gli interessi e le passioni umane, le proprie e le altrui, e fors’anche un mendicare per tutto il cammino. Ma era questa la condizione assoluta alla sua permanenza nel tempo, alla sua eternità, rispetto agli interessi temporali e alle caduche passioni…
«Scampato di guerra, nulla desideravo quanto approfondire quelle trame di me stesso pubblicate (Ragazzo; il I Quaderno di Con me e con gli Alpini; le Resultanze in merito alla vita di Gino Bianchi). Venne il fascismo a impegnarmi ancora su posizioni di vita vissuta, quando non potevo più dispor di me stesso, perché sentivo di dovere, a ogni costo, ai miei quattro figlioli quegli studi regolari che la sorte aveva negato al padre. Presto, minorato e interdetto, misero schedato politico in consegna per coatta collaborazione tecnica a polizia e milizia ferroviaria che mi sequestravano perfino i foglietti di appunti, dovetti comprendere di avere io stesso condotto al naufragio quel mio piano illusorio di libera traversata della vita come scrittore, e che quella redentrice fatica di Adamo ferroviere, mi aveva murato in una tomba ventennale di coatto silenzio.
«Posso chiedermi a volte se avessi il diritto di infliggere tante sofferenze ai miei cari; ma non mi pento, per quanto riguarda me, di avere accettato di essere un uomo comune, pur di conservarmi il rispetto della mia anima…
«Vorrei soltanto che mi rimanesse abbastanza tempo e freschezza per riprendere il dialogo interrotto, con lo stesso amore».
Come ho già scritto altrove: chiuso il quaderno, si intende l’abisso di prospettiva che divide questa posizione da quella esibita e conosciuta di tanti coetanei («gli intellettuali che gridavano guerra tra sigarette e stravizi» o i tanti che si affidavano, incongrui, all’onda della storia). Se c’è una esaltazione stilistica che potrebbe, all’avvio, creare qualche equivoco, l’epicità di Jahier (cioè quella sua tensione di consumarsi nelle cose da fare, nelle opere della vita) a mio parere è sempre didascalica; e il lirismo non è una esercitazione dello stile o una eccitazione sentimentale predisposta all’esaurimento ma una «necessità» per strumentalizzare a fini specifici il sentimento, la sua carica di comprensione, e di persuasione («fare il bene con disperazione»); e questa strumentalizzazione si organizza non su un progetto di umanitarismo generico ma, come ho detto, pedagogico («questa è assistenza d’amore»). Il primo, comunque, presuppone una concezione aristocratica della società, per cui l’interesse e ogni possibile attenzione sono, alla fine, soltanto una curiosità e una trasposizione (o un trasferimento dall’alto) di elargizioni paternalistiche: il regalo, il dono, il soccorso ecc.; questo invece chiede la partecipazione della ragione – una partecipazione fortemente interessata e caratterizzata. Il lirismo, dunque, è una tensione che si consuma, svolgendosi, operando; non una esagitazione che si consuma, avvampando, in se stessa.
Nella misura in cui Jahier si oppose al ribellismo concitato e irrazionale dei suoi compagni in letteratura, identificandosi con una lucida continuità nell’impegno di un operatore didattico (con la rigidità e la severità che tale progetto comportava) egli fu un rivoluzionario, e un isolato, naturalmente. In questo senso un «maestro» è rivoluzionario: se opera e si oppone, cioè se si sforza di modificare, entro situazioni di fatto, la condizione degli uomini. Mentre tanti colleghi si esaltavano disponendosi a utilizzare la guerra come un farmaco privato, in Jahier è subito tipico un proposito violento, tenero, misteriosamente ottuso (nell’apparenza di un candore semplice) di regresso, di rientrare nei ranghi, di perdersi nel numero, di imparare dagli altri, di identificarsi e direi consumarsi nella grande massa anonima che fatica con disperazione la vita («è il momento di ritirarsi e di soltanto guardare»).
La sua ambizione è orizzontale, prospettica, contro l’egoismo realistico e verticale degli altri; il suo progetto di lavoro è subito metodico, non esaltante e improvvisato ma convinto, demistificato. Cerca i collegamenti, si propone di allargare la serie dei rapporti umani, sente di non poter agire se non conoscendo; provoca un discorso continuo, in cui egli sia piuttosto un uditore o un partecipe che un artefice da applaudire; non chiede consensi ma convinzione; non vuole suscitare ammirazione ma simpatia e, alla fine di tutto, fiducia, cioè amore. I suoi alpini non sono soldati, ma montanari; la caserma è una casa per un raduno, da cui partire per le proprie vicende. Si vede allora a quale utile e «rigenerata» (dall’interno) nozione di impegno porti questa esemplificazione – riscontrata sulla carne di un uomo che si è consumato; e come tale nozione, anziché esausta o esautorata si ri-proponga ancora come il progetto di lavoro più esaltante, o più utile, per uomini del nostro tempo. Buttarsi e operare «direttamente», senza mandanti anonimi o intermediari interessati; senza chiedere o proporsi null’altro che la necessità di questo lavoro; für ewig.
Da molto tempo non si chiudeva una vita più degna.
Rinascita, anno 23, n. 47, 26 novembre 1966.
(Questo contributo è stato pubblicato con la collaborazione di Eugenio Chemello e Giovanni Gheriglio)
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
- Testata: Rinascita
- Anno di pubblicazione: anno 23, n. 47, 26 novembre 1966