Il linguaggio del Festival (II)

Bologna, settembre –. Nel 1974, proprio a Bologna, il Festival nazionale dell’Unità esplose per la prima volta. Aveva già una lunga tradizione; era già un avvenimento, una scadenza importante nell’arco dei dodici mesi, per gli anni passati; ma in quell’occasione si propose come un momento (non solo concreto in senso politico ma profondo e stimolante in senso esistenziale) di verifica generale sullo stato delle cose; di sollecitazione, di promozione anche in aree culturali non coinvolte in modo diretto, almeno fino allora, nell’ideologia e nella politica del Pci.

Quel moto ascensionale che meravigliò tutti, lasciando una documentabile scia di commenti, di analisi, di dibattiti, di discorsi vari, si poté realizzare per una concomitanza di esempi dentro a una situazione sociale che, a livello del potere reale, tutti sentivano come prima o addirittura più di prima corrotta, miserabile; e che da poche settimane appena aveva tollerato e subìto la strage del treno Italicus. Infatti quello era il momento ascensionale della sinistra (accompagnato dalla giusta speranza di continuare a rafforzare, nella pratica, la volontà politica che stava aprendo vie nuove d’accesso per saltare dal ghetto dell’emarginazione); una sinistra che intanto era riuscita ad aggregare intorno a sé molte aspettative, altre rabbie di ceti sociali un tempo indifferenti o sospettosi o addirittura estranei.

In poche parole: la situazione reale, profondamente involuta, soprattutto mutata e incrinata negli ultimi otto anni dopo piazza Fontana, attraverso la vischiosità delle sue crepe e delle sue contraddizioni spesso macabre, confermava l’urgenza di un ricambio rapido e sostanziale per cercare di riemergere da un magma insopportabile. Così si può dire che dentro al festival del 1974, benché la situazione fosse inquieta fino allo spasimo, c’era un entusiasmo della ragione e della speranza che si traduceva in un bisogno di partecipazione che coinvolgeva la gente. Tuttavia anche allora mi capitò di annotare, proprio su questa rivista, nel numero del 13 settembre: «il festival sembra che non abbia raggiunto ancora il rigore di un discorso nuovo e soprattutto completo, nel senso dell’utilizzazione di tutte le possibilità di comunicazione. Voglio dire che non ha ancora elaborato un discorso organico che possa – per esempio – coinvolgere, invece di interessare soltanto, i giovani». Concludevo che secondo me era urgente, all’interno del festival, l’elaborazione di una politica della comunicazione che realizzasse un unico centro di ricerca, di programmi, di decisioni.

Adesso siamo nel settembre del 1980; il festival nazionale è ritornato a Bologna. Anche questo autunno è splendido, appannato da un filo di foschia ma irrorato da un sole senza fuoco, grasso e tondo, che sembra lì lì per scoppiare. Di gente ce ne è un fiume; della città, della campagna; ma anche gente che viene da fuori, perché Bologna è Bologna. Certamente una città di provincia, ma che da più di 30 anni è al centro di molte cose; in particolare, dei fatti più importanti accaduti, in negativo o in positivo, nel nostro paese. Perciò una proposta di incontro generale (quale via via deve determinarsi a essere un festival nazionale), se inoltrata da questa città, acquista un risalto particolare. Perché Bologna è Bologna. E il suo invito a venire mette in moto cose, persone, attese, storie, idee.

Così in questi giorni la città è piena zeppa; ma con lo smalto di tante presenze vive, non con una folla oppressiva, non con il peso dei soli corpi. Eppure ragioni di dolore, di giusta rabbia, di faticata e faticosa attesa, di duro lavoro ci sono, si trovano ad ogni angolo per ognuno; e pesano sul cuore. Si può dire che il grande raduno non è allegro (anche se è sereno, con fermezza). È un’occasione di riunione e di incontri, ma sotto senti covare il fuoco (quello che ciascuno porta dentro, come un peso di ogni giorno). Perciò potrei dire che se nel 1974 si sperava, si voleva, si credeva, oggi forse non si spera né si crede, ma è certo che si vuole. La determinazione tutta corposa e precisa della volontà prevale sopra ogni delusione ogni inquietudine, anche sopra ogni amarezza passata e presente; ma è certo vero che manca, questa volontà di volere (meglio: di continuare a volere) in riferimento preciso a qualche cosa. Sarebbe troppo ovvio riferire che si vuole solo e subito giustizia.

Ecco allora che si entra nel cuore di questo festival; il quale, programmato secondo alcune linee di fondo, è stato stravolto e tutto condizionato dalla strage d’agosto. Cioè da un fatto che ancora una volta, proprio a Bologna, esprimeva il continuo della violenza: una violenza che sembra irrefrenabile; mai perseguita, mai punita, mai colpita, mai spenta. Ed è dentro a questo festival (anche lì dentro) che si raccolgono le ragioni obbiettive che danno un peso e una precisa giustificazione, una motivazione, a queste due settimane di incontri, di discorsi, di parole, di suoni. Gli ridanno tensione politica (che sembrava rimescolata); lo caricano di una rinnovata vitalità nel cercare, nel volere; di una più definita, stimolante volontà di tenuta. Quasi che ciascuno entrando dicesse: siamo qua per non dimenticare le cose accadute; anzi veniamo perché non soltanto le vogliamo ricordare ma vogliamo continuare a pensare, a discutere, ad agire perché la violenza che ha già ucciso ma non sconfitto gli altri non uccida – riuscendo a sconfiggerci – anche noi.

Noi desideriamo non soltanto vivere ma resistere; perché non accettiamo di rassegnarci. Questo è il significato che raccolgo dal fondo di questo festival; così sento che è il modo con cui lo leggono e lo ascoltano i giovani, che non si lasciano incantare. Perché fuori da questo e nei dettagli (muovendo magari dalle mie considerazioni del ’74 sul linguaggio di quelle giornate) direi che ho registrato un sovraccarico di segnali, una sovrapposizione talvolta irritante. Tale quale si riscontra nel precipitoso affollarsi delle televisioni locali, a bande sempre più ravvicinate, così da scompaginarsi a vicenda. Un controllo e una più attenta programmazione linguistica, vincendo la tentazione del macro-spettacolo, credo che saranno indispensabili per il futuro.

Non mi sembra proponibile una comunicazione facendo coesisterne lo spazio da qui a là, cioè in pochi metri, un teatro togolese, di burattini, la musica vietnamita, un’orchestra bulgara, il teatro del Buratto e lo spazio per spettacoli sperimentali; con sovrapposta una sarabanda radiofonica a voce profonda. Nessuno riesce a ordinarsi e a dare una soddisfazione alla propria curiosità; cosicché i canali di questa comunicazione dilatata e simultanea finiscono per ingorgarsi. È la stessa obiezione da muoversi, per esempio, alla mania perniciosa, intervenuta come una moda, di allestire mostre-mostruose, architettate e organizzate in mille scomparti, in cento sale, in venti città, in centomila pezzi. Nel mare del tutto nessuno capisce più nulla; ma tutti fingono di vedere girare e capire, mentendo. Invece al festival, chi ci va vuole capire sul serio. Non si lascia fuorviare. Vuole andare al fondo delle cose con pazienza. È la ragione, nonostante gli anni delle bombe, per cui questo antico doloroso faticoso paese sta ancora fermo sui piedi – anche se la testa, lassù fra le nuvole, sembra magari bruciata da Giove.

 

 

Rinascita, anno 37, n. 36, 12 settembre 1980.

 

(Questo contributo è stato pubblicato con la collaborazione di Eugenio Chemello e Giovanni Gheriglio)

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
  • Testata: Rinascita
  • Anno di pubblicazione: anno 37, n. 36, 12 settembre 1980
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