Dentro a un concerto
Dentro a un concerto tante voci. Assai fitti i libri su Pasolini. Quelli impietosi, che si occupano dell’opera e non della morte, aiutano di più
Ormai tutti hanno parlato di Pasolini (gli ultimissimi stanno arrivando adesso). Voglio dire che tutti proprio tutti hanno scritto, discettato, formulato, proposto e anche concluso su Pasolini vivo vivente e su Pasolini morto per sempre; nonché sulla di lui opera che continua a fluire come un fiume, qua e là debordando. Da piccolo mucchietto d’ossa maciullate fra la polvere di una marrana, poco per volta (anche tramite la inquieta manipolazione di una cultura che non ha più neppure la pazienza d’ascoltare e d’aspettare, dato che è talvolta dalle sue piccole necessità che però sono urgenti; quindi sembra sempre sapere tutto e subito) Pasolini è diventato busto marmoreo lì sulla piazza, lacerto d’archivio, beneficiario di lacrimosi consensi o, viceversa, destinatario di acidule riserve formulate col metodo della mezza bocca.
Un Pasolini per tutte le tesi (di laurea)
Dimidiato fra queste insofferenze e una esaltazione che è certo peggiore dell’ammirazione ragionata, a me appariva (compatendolo) e mi appare ancora oggi un’ombra itinerante inseguita dai cani o, come il lebbroso dal suono di un campanaccio. Questo si intende dal mio ambito privato di lettore che non riesce a dimenticarlo. Quel Pasolini in pubblico – o pubblico – così codificato e trasformato mi sembrava che fosse diventato buono a esaltare chi neanche lo leggeva accontentandosi di alcune mitiche suggestioni o a stimolare tesi di laurea nell’ambito degli atenei – che sono tutti fuori dal mondo. Intanto oggi mi accorgo che dentro a questo concerto a tante voci non basta un palchetto intero dello scaffale a contenere le sue opere e ce ne vogliono almeno due, inzeppati, per la bibliografia necessaria. Inoltre non passa giorno che non ci sia promessa una qualche aggiunta di altra roba; i più pertinaci essendo ancora gli studenti studiosi alla ricerca della primissima gloria erudita. È un tourbillon che solleva polvere e ghiaia, da cui non è male sottrarsi. Eppure ogni tanto capita un buon incontro.
Il libro di Santato su Pasolini (Pier Paolo Pasolini: l’opera, Neri Pozza editrice, 1980, lire 12.000) per esempio mi pare un bel libro di critica su un autore contemporaneo (anche se ormai classico, con pericoli e relative zavorre del caso). Un libro poco o nulla recensito sui quotidiani, ma molto argomentato; legato con cura a tutti i nodi dei problemi testuali e appoggiato a una documentazione non capricciosa ma rassicurante, nel senso dell’esattezza e dell’aggiornamento. (In effetti, altro dato spesso deprimente nell’accavallarsi dei contributi critici sui contemporanei, è la petulante sciatteria o approssimazione nei particolari, nelle note, nella bibliografia. Così che un errore, una volta a stampa, viene per lo più ripreso e perpetuato senza altro controllo o cautela).
Per me lettore è dunque da sperare che possa intervenire – insieme a pochissimi altri, e ci metterei subito i contributi critici di Gian Carlo Ferretti – per sbloccare la bibliografia pasoliniana dagli ingorghi apologetici o dal vampirismo mimetizzato dei catoni di turno. Questo in generale. In particolare, merito di Santato è di farci «leggere» Pasolini; meglio: di suggerirci una nuova voglia di lettura dopo parecchie prove che ce lo hanno fatto soltanto «vedere» o soltanto «ascoltare». («Una chiave di lettura rivolta pressoché esclusivamente al personaggio ha installato la propria egemonia, a scapito di una autentica lettura o rilettura dell’autore» pag. XV). Il libro di Guido Santato su Pasolini lettura testuale senza sforzature, piuttosto attenta al senso della minuzia e incalzata da continue estrapolazioni che risultano poi un supporto determinante. Mentre troppe volte in passato, con una furia che sembrava demolitrice ma alla conclusione risultava abbastanza pretestuosa, ci proponevano o ci costringevano a «scegliere». L’aspetto pubblico, il momento pubblico di questo autore di scandalo e d’offesa, quasi sempre presentato in una situazione di dramma e strapazzato da più parti, era fatto prevalere (calcando) sulla vitalità, sulla rabbia desolata, sul suo amore per il proprio amore e le cose del mondo; un amore inquieto pieno di continue solitudini – anche se bruciano per la splendida fantasia e per una libertà che in definitiva non ha paura. Eppure a significare l’importanza che assume il nodo «ideologico» in una personalità centrale come Pasolini, ha ragione anche Ferretti quando (su l’Unità del 22 luglio) manifestava generalmente una preoccupazione per l’uso volontaristico, troppo letterario o strettamente letterario che si fa di lui, nel complesso e da più parti. Ribadendo che la sua attualità (aggiungerei: la sua utilità persistente, resistente) riposa nella duplicità, nell’ambivalenza drammaticamente esibita fra pubblico e privato, fra l’opera e l’uomo, fra pagina scritta e l’offesa quotidiana sopportata in pubblico e in pubblico denunciata e urlata.
Liberare uno scrittore dalla sua morte
Certamente. Ma nel libro di Santato, anche se prevale il proposito metodologico di rovesciare fino in fondo, come un cassetto, i testi di Pasolini per inseguire i segni nello svolgersi (nel crocchiare) delle pagine, col fine di radunare ogni dettaglio che possa servire ad approfondire, accantonando lo scrupolo di affrontare e definire un ritratto complessivo a tutto tondo dell’autore, non è tralasciato un raffronto insistito con i fatti, presi nel dettaglio non come un privilegio esemplare ma piuttosto da rifinire e definire. Comunque questo è un appunto da muovere e cioè che l’ultimissimo Pasolini in questo libro è appiattito o almeno non è evidenziato e viene proposto quasi epigonicamente, cioè più legato all’abbrivio di uno svolgimento anteriore almeno tutto definito, se non rifinito, che stravolto dalla e nella furia sulle idee, dalla e nella lucidità drammatica e tragica sui fatti che erano di nuovo una conquista, una rinnovata acquisizione dentro alla sua storia: fatti che gli assegnavano (gli concedevano) mentre si avvicinava alla morte una terribile autorità presso i lettori e una carica comunicativa che si traduceva (si alimentava?) nell’ebbrezza, nella violenza, nella chiarezza inquieta dei suoi ultimi segni.
Però apprezzo che Santato non oltrepassi un giusto limite (e anche in ciò che sta la «buona» qualità del suo lavoro) e che continui con attenzione a trasceglierne ogni dettaglio selezionato dentro le pagine che sta leggendo, mantenendosi in una posizione centrale per inquisire Pasolini: un Pasolini scritto su un Pasolini detto o agito o recitato o raccontato o pianto con rabbia. In questa occasione e per questo tempo a me sembra una scelta utile e interessante. Utile per chi studia e legge e non si accontenta di ascoltare. Lo annoto perché, così, una volta tanto pare che Pasolini sia sottratto alla mitografia della croce (della crocefissione) in cui lo sentiamo relegato come un grande quadro d’altare, immobile e defilato; per essere riconsegnato con fiducia calma (come una necessità) alla verità e alla resistenza dei suoi segni. Questo, che è un atto d’attenzione inquieta e d’amore dentro all’operazione critica, non è incrinato da quella (solita) commozione un po’ cupa dei sentimenti che alla fine fa precipitare il giudizio; si appoggia piuttosto a un movimento critico, meditato e calmo progressivo, sia pure dentro a una tensione che riesce a smuovere senza pause il «discorso» che cerca e dichiara.
Un’opera «goduta e vissuta, mai studiata»
Dico questo in quanto, come lettore interessato e contemporaneamente disinteressato (cioè non conquistato da nessuna conclusione generale ma desideroso sempre e solo di capire) mi rendo conto, sento che è tempo di contribuire a liberare Pasolini dalla sua morte per riconsegnarlo alla sua opera. Liberare Pasolini dalla sua morte non vuol dire liberarlo dalla sua storia per consegnarlo intatto al limbo dove girano i filosofi e i poeti d’Atene. Vuol dire, per me, dissacrarlo e compatirlo per poterlo liberamente riascoltare – con una emozione più completa. È tempo di cominciare a comprimere, come afferma anche Santato, «Gli aspetti propriamente pubblici della sua personalità da dilatata che era: dato che in molti casi questo ha prodotto una massiccia mitografia del personaggio singolarmente omologa alle attese e dalle richieste del mercato». Questo vuol dire che bisogna davvero scavare quasi con le mani sopra la terra che lo ricopre per sottrarlo da ogni parziale o ulteriore manomissione.
Mi ricordo di una breve lettera di Jorge Guillèn inviata per un omaggio a Ungaretti poi stampato da Mondadori in un volume del ’60. Diceva: «ma adesso, senza libri senza tempo, non potrei tratteggiare nemmeno il più modesto studio di un’opera che ho goduta e vissuta, ma che non ho mai studiata». Goduta, vissuta, mai studiata. Senza la frigida arroganza dell’accademia, radunando i dati per montare un congegno d’amore testuale, non già un congegno schematico. Santato ci aiuta a credere che possiamo, dobbiamo avvicinarci a Pasolini sottraendolo sia a un funebre vittimismo che finisce per essere solo sacramentale, e che perpetua rabbia e lacrime; sia al filologismo snervante e ufficiale, dove si annidano i laghi bibliografici freddi come l’inverno, riservati ai classici per sempre. Dopo pause traumatiche e attese impazienti ricuperiamo la pazienza critica per cominciare a riconsiderare attraverso queste pagine (che sono le pagine di Pasolini) i nostri problemi che sono duri e tragici. A tal fine Santato ha composto un libro preciso, severo, impietoso; non un libro pietoso. Inoltre, cogliendo il generale, egli così propone di ricuperare lo sgomento ideologico di Pasolini indirizzandolo dentro a un dibattito da lasciare aperto (scoperto); non classificatorio; senza esercitare, insomma, la premura di trovare giustificazioni; per offendere o condannare o prolungare l’agonia dei sentimenti. Gli ultimi scritti di Pasolini sono da leggersi, perciò, non per la nostra rassegnazione ma per aggiungere un po’ di forza alla nostra convinzione. E Santato invita a rinnovare e a ritrovare una violenza libera nelle idee più che affermarci per perseguire dentro ai mille dubbi dell’inquietudine non la giustizia della morte di Pasolini ma la vendetta della nostra vita. Questa è una conclusione di un grande impegno che si rinnova.
il manifesto, 15 novembre 1981.
(Alla digitalizzazione del testo hanno collaborato: Chiara Bensi e Nicoletta Defranceschi)
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
- Testata: il manifesto
- Anno di pubblicazione: 15 novembre 1981